Il tema di
questo singolarissimo libro è il desiderio, peculiarmente la
fenditura di desiderio tra il sogno e la sua realizzazione, quel
«non-luogo-nel-non-tempo» dove vive la parte migliore di noi e da
dove ha origine il resto, afferma Nina Nasilli nell’originalissimo
prologo a Parabola d’amore,
«Racconti in versi per il teatro pensando a Marina C. e a Rainer
Maria R. nell’anno del fato 1926» (Book Editore 2012). La
perentoria originalità delle pagine introduttive si irradia su tutta
la struttura del libro, scandita dall’avvicendarsi delle diverse
parabole dell’esistenza. Drammatica ma fattiva è la condizione dei
due soggetti-oggetti del desiderio inappagato («questi sguardi
cupidi di carpire un segreto»… «non sanno che il segreto è nei
loro occhi che stanno a guardare?»), la loro spasmodica tensione in
una lontananza concepita e vissuta quale scarto dall’ordinarietà
in vista della significazione letteraria, della soddisfazione
dell’esigenza del dire. La rinuncia al possesso del desideratum
ha dunque un nesso con l’accesso allo spazio dell’arte («in
questo modo / mi aprirai anche le gambe / della fantasia»): proprio
in virtù di questo spiraglio tra desiderio e atto, tra ideazione ed
espressione (paragonabile, scrive la Nasilli, a «quel momento di
respiro profondo che precede un’immersione»), del senso del
limen-limes, della
soglia-confine – soglia del dire e soglia della dimora, della
parola «corposa senza corpo» sede dell’essere – intesa come
scampo alla desertificazione, del margine come limite e insieme
implicita possibilità di un fluire scambievole, di un passaggio, di
una fusione. Solo qualora il desiderio si consumi in una
configurazione di attesa, e in particolare nella valorizzazione del
difettare, cioè di quella mancanza da cui lo stesso desiderio trae
origine:
sparsa
l’attesa che nutre
il suo
desiderio vaga nell’aria
da un
tempo ad un altro
da un
trascorso che se è lontano pare remoto
e se è
vicino pare lontano
fino a un
avvento che è bello
perché è
sempre incerto
ed è
remoto lo stesso…
Composta
per integrare idealmente l’epistolario di Rilke e la Cvetaeva,
quest’opera afferma la lucida constatazione che solo nella
dimensione dell’imposseduto sarà possibile una testualizzazione
del condizionale, il nominare tanto l’amore (che vediamo qui
progredire in «amore poetico») che tutto ciò che non si è mai
stati nella sfera illimitata dell’immaginario – in quella
bi-sfera, quella sfera che eccede e paradossalmente avvolge se
stessa, di cui si è parlato a proposito della spazialità del
Paradiso dantesco. Non
altrettanto, nella prospettiva della Nasilli, si verificherebbe nella
declinazione dell’«amore coniugato», che finirebbe per annullare
soggetto e oggetto in una fusione consumata fino in fondo, in una
fiamma che potrebbe non lasciare altro la cenere amara del deludersi
per l’infinito lambito soltanto. «Transformase o amador na cousa
amada» («si trasmuta l’amante in ciò che ama»), dice un sonetto
del platonico e ficiniano Luis de Camoens. Questa trasformazione –
che consente al soggetto amante e desiderante di divenire altro da sé
senza svanire, di entrare e di essere nell’altro e per l’altro
senza venirne incorporato ed eliso – è mediata e resa possibile
dalla distanza, sia dell’amante dall’amato che del soggetto da se
stesso – la «fessura intra-coscienziale» degli esistenzialisti –
al momento dell’assunzione di autocoscienza:
tu sai:
è il
pensiero di te che mi forma il contorno
dell’ombra
sulle strade
del mondo
che vado
ogni giorno
attraversando
Più
che la prospettiva (quella canonizzata) dell’«agogno» gozzaniano,
che traduce un desiderare non intenzionalizzato, o comunque
intenzionalizzato verso qualcosa che già in partenza si sapeva
precluso al soggetto desiderante (di qui la rima ricorrente
«agogno:sogno», l’identificazione del desiderare con
l’inconsapevolezza), nei versi della Nasilli si percepisce una
vaghissima eco di La morte di Tantalo
di Sergio Corazzini. «O dolce mio amore, / confessa al viandante /
che non abbiamo saputo morire / negandoci il frutto saporoso / e
l’acqua d’oro, come la luna». «Non moriremo mai del tutto / noi
che tanto abbiamo amato» (benché in
absentia, e nell’ottica di una intrinseca
compiutezza del desiderio), dà l’impressione di replicare la
Nasilli. Nel crepuscolare romano l’inconsumato era l’aspirazione
fatalmente trasgredita, pena
la condanna a un accesso insostanziale
alla nozione della cosa: «andremo per la vita / errando per sempre».
E la distanza era quella essenziale e
immedicabile dell’estinzione imminente, o meglio di una morte forse
sognata e mai attinta come liberazione ultima dalla desolazione
dell’esistere. Ma forse – nello sfalsamento delle parti recitanti
di Parabola d’amore
– il nesso amore-morte («Hai mai provato /
nel tempo dei giochi
senza malizia / a pensare alla morte?») si
spiega anche con la distanza necessaria all’amore, con quel deserto
minimo e infinito che deve pur aprirsi e sussistere tra due anime e
due corpi perché possano, attraverso di esso, in quella trasparenza
abbacinante, riconoscersi, desiderarsi e muovere l’uno verso
l’altro.
Ma
l’altro, amato e desiderato in quanto altro, è figura o riflesso
dell’altro sostanziale, dell’alterità assoluta: quella del
divino come della morte, di un delirio che può essere quello
dell’estasi e della passione o quello dell’agonia, di una
smemoratezza come orgasmo o come annullamento. La possibilità
smaterializzata, non sperperata e sognata dell’amore è la stessa
possibilità essenziale della morte. E l’attuazione è sempre
dissoluzione («sublime / in terra / non esiste»), concretizzazione
della possibilità ma, contemporaneamente, anche suo svanimento in
quanto possibilità. Tuttavia, attraverso la diffusa simbologia
naturalistica già inscritta nella tradizione letteraria, la Nasilli
esibisce gli emblemi della introversione del desiderio, i quali,
mentre si accordano con il moto ascendente e con quello discendente
della vita, designano e configurano le icone della metamorfosi,
illuminando e scandendo la transizione perenne di ciò che si
estingue e risorge. Perché – è scritto nel risvolto di copertina
– «anche l’amore vive in natura».
Elisabetta
Brizio