Gilles
Deleuze parlava, a proposito di Kafka, di “letteratura minore”:
non già, ovviamente, nel senso di una letteratura di rilievo e
valore trascurabili, né di una letteratura che si esprimesse in una
lingua minoritaria; ma, al contrario, nel senso di una letteratura
che esprimeva, all'interno e dall'interno di una grande lingua
nazionale, maggioritaria, solenne, consacrata, legata al “grande
stile” di una tradizione secolare, un punto di vista particolare,
defilato, straniero, allotrio, ma proprio per questo libero e
rivelatore.
È
il caso di Idolo Hoxvogli (Introduzione
al mondo,
Scepsi e Mattana, Cagliari 2011), nato in Albania ma da sempre
italiano, per cultura e formazione, eppure connotato, nella sua
esperienza e nella sua visione, dallo sguardo errante, dalla gamma
cangiante di percezioni e di significati, dal wandering
meaning direbbe
Harold Bloom, dello straniero, anche se straniero nella sua stessa
patria, d'adozione eppure essenzialmente, quasi archetipicamente
originaria.
Come
in Kafka, e come nella “letteratura minore”, l'autore adotta una
prosa limpida, nitida, esatta, e nel contempo, a tratti, evocativa,
baluginante, epifanica, segnata da una pregnanza che la stessa
esattezza della scrittura fa maggiormente risaltare, come risonanza
segreta che salga dall'abissale profondeur
de la surface.
Del
resto, «le radici sono nel futuro». La tradizione e l'identità,
invertendo, anzi accelerando, il corso del tempo, sono collocate non
in un passato mitico, o in un elusivo e forse mistificante eterno
ritorno, ma in un oltre, un'ulteriorità, un dover essere (o
dover-divenire). «Civiltà e barbarie», creazione e distruzione,
nell'ambiguo e spesso cruento crogiolo della storia, possono
coesistere (si pensa alle riflessioni di Thomas Mann sulla
Kultur,
spietatamente istintuale, opposta alla freddamente razionalistica
civilizzazione). «Agli sconfitti rimarrà il proprio cadavere
violato, ai vincitori un arco di trionfo che tramanderà la memoria».
«Tutti
apparteniamo a un'altra riva, e questo ci unisce». L'identità è
alterità; il noi si precisa e si definisce in rapporto all'altro, e
viceversa.
«Ora
che si conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla, proprio ora
questa vita in equilibrio fra nulla e nulla, proprio questa vita
sembra essere nulla».
«Il
nulla nulleggia», si direbbe con Heidegger.
L'essenzialità
della scrittura ‒
qui, però, fitta di bisticci e di paronomasie ‒
riflette la reificazione del mondo, e nel contempo la notomizza e la
strania. Una frenetica e vacua ed ebete «Allegria», un insensato
entusiasmo (come l'autore rivela in diagrammi a tutta pagina che
fanno pensare alle parolibere futuriste ‒ e proprio il Futurismo, è
stato osservato, con la sua ossessione della materia e della
macchina, prelude alla logica del postmoderno) alimentano la
multicolore, sterile ed insensata parata del consumismo.
Ogni
redenzione sembra impossibile. Come scrive l'autore echeggiando
Benjamin, «Macero
è il legno della croce. L'anima del Messia non è arroventata dalla
fiamma divina».
Introduzione
al mondo,
è il titolo del libro. Ciò parrebbe suggerire ‒ pur se,
chiaramente, in un'ottica ironica, distopica, antifrastica ‒ la
presenza di una delle cosiddette “opere-mondo”, ormai tramontate
ed impossibili; di uno di quei vasti ed organici, per quanto
polifonici o dissonanti, sguardi gettati sull'immenso ed entropico
regno dell'umano e dell'esistente.
Ma
la stessa interpretazione,
la stessa visione di quel mondo è tremula, cangiante e sfaccettata
come la superficie del mare; non è uno specchio uniforme e piano, ma
piuttosto un prisma labirintico e cangiante. «L'indeciso
spicchio di mare da che parte deve volgere le onde? (...) Lo spicchio
di mare ‒
l'interpretazione ‒ deve essere fatto proprio». «La barca deve
essere buttata a riva, o naufragata, affinché possa essere ammirata
interamente».
Lo
spicchio di mare che rappresenta lo specchio, traslucido e insieme
diffratto, dell'interpretazione è quell'esile lembo d'Adriatico che
divide l'Italia dall'Albania (e, per l'autore, la sua vera patria
culturale dall'origine prima, remota, dalla quasi prenatale Arché
donde sgorga il suo indelebile nome che è essenza e destino, quasi
nomen
omen)
‒ quel millenario immateriale ponte di venti e d'acque attraverso
cui, forse, in un passato fra storia e mito, i Pelasgi recarono con
sé le radici della civiltà italica.
Ma,
come detto, le radici sono nel futuro. E nel futuro soltanto potrà
forse ricomporsi e ridefinirsi un'identità polifonica, nel dialogo,
rivelatore e insieme straniante, definitorio e insieme alienante, del
Sé e dell'Altro.
Matteo
Veronesi
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