E’
un poema della vita familiare, questo nuovo lavoro di Sauro Albisani
(che appare, per Passigli, dieci anni dopo “Terra e cenere”, la
raccolta di poesia precedente).
Anzi:
è un poema della vita familiare odierna, quella vita cioè, mai
come ora, privata: privata di ogni sostegno comunitario; di ogni
visione stabile, socialmente condivisa; di ogni riposo rituale,
parentale, amicale.
Dei
parenti sì, di sfuggita, vi vengono nominati: un nonno, una nonna,
una zia; ma senza attribuire loro alcun ruolo affettivo specifico, o
di aiuto, di guida.
La
famiglia di Sauro, cioè, è non idealistica, è “mononucleare”;
e si arrabatta, si adatta, facendo tutto da sé, resistendo come
può, ma comunque -sempre- indefessamente: senza cedere mai, senza
neppur un attimo pensare di allentare i propri obblighi, di
sciogliersi dai legami.
Vi
sembra escluso infatti a priori il benché minimo risvolto
psicologico individualistico, escluse, anzi del tutto impensate le
consumate, consumistiche risposte attuali allo sconforto familiare
epocale: incompatibilità, diversità, aspirazioni, diritti, opposte
idealità…
No,
proprio no, qui il legame è -“naturalmente”- per sempre:
questa, infatti, è la famiglia del poeta!
di
colui, cioè, che col suo strenuo studio e
‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
( ovvero: per sua
naturale inazione / e diacona effigie di maestro)
ritrova, (antimodernamente), il sentimento “ingenuo”
dell’obbligo incondizionato, di qualcosa, qualcuno, che non si può
manipolare, che permane; e che stupisce, fa meditare.
Ma
mai un simile, intoccabile fondamento viene esibito, cantato,
impugnato: senza retorica, senza parere, di continuo -invece- si
riconquista, si ripete e silenziosamente contiene il disorientamento,
le spossatezze più forti, le pene.
Così,
parole estreme, come:
“Ciò che dà senso a questa
giornata insensata
che non hai bisogno di ricapitolare
perché te la ricordi benissimo,
povero idiota,
è la sua totale insensatezza.”
oppure, come:
“Quello che mi dispiace è non
capire
perché abbia dovuto essere questa
la mia vita. Mi rincresce, lo so,
non è generoso, anzi è un discorso
di merda il mio,
ma non vogliamo mai, proprio mai,
essere sinceri?”
oppure come:
“Sono esistito, non è stato bello.
Sono esistito, non è stato un
piacere.
Sono esistito, non lo rifarei.
Un armadio pieno di compiti
corretti mille volte, e la sensazione
che tutte quelle cose non siano mai
successe.
Provo ogni tanto a perdere la chiave,
ma la ritrovo sempre. Almeno sapessi
perché.
Tutti quegli anni a scuola
senza imparare nulla,
senza riuscire a insegnare nulla.”
sì,
parole estreme come queste, sono collocate, figurate in un fido,
figurale:
non
tradire, non lasciare, non cedere.
In
un umanesimo, direi; un umanesimo privato, oggi, di ogni riscontro,
ogni conforto, e quindi non più “civile”: privato, appunto,
relegato al suo ultimo, decisivo confine: la famiglia.
Ma
come soffre questa famiglia, senza polis, senza comunità, senza
niente!
Eccola
qui:
“Domattina. Lei ti aiuterà
a farti la doccia, puoi esserne
certo.
Almeno questo, sì; poi chi vivrà
vedrà.
Per guadagnare tempo
ti porgerà gli indumenti
scaldati un po’ con la stufa
elettrica;
devi farti coraggio,
è proprio il caso di dirlo. Perché,
se ti guardi indietro, vedi
un beffardo calendario di ritardi,
appuntamenti mancati.
Ma domattina sarai puntuale:
nel perimetro delle mura domestiche,
in questa gabbietta,
non può entrare il lupo
e neanche il gatto, se è per questo.
Ma lui
fa le fusa anche agli imprevisti.
Chiudigli la porta in faccia, tu.
Agli imprevisti, dico, agli
imprevisti.
Chi comanda in casa tua?
Poi, all’alba, tutto il programma
cambia
e lei deve correre in banca
ma ti mette la sveglia, già stanca
prima di tuffarsi nel rebus del nuovo
giorno.
Dove siamo caduti?
Dove ci hanno precipitato?
Cosa vogliono da noi?
E se glielo chiedo, loro
mi sentono?”
“Loro”
no, non sentono, anzi, in definitiva, non esistono.
Esiste
questa
famiglia: l’ultima polis -nascosta- del poeta, del popolo, sempre
più sofferente, “perdente” e infine, quando troppa è l’offesa,
artefice -come sempre- di rinascita, di ripresa.
Infatti,
c’è anche una poesia civile, in questo “privato” poema;
una
si intitola: “Giovane
Italia”, e inizia così:
“…
patria è tenere lontani i bambini
dalla televisione, pensò la
maestrina.”
E
ancora ci sono slanci, esultanze, epifanie dell’agire - di dopo, di
prima:
“Quel senso d’immortalità
sotto il sole di luglio
dopo l’esame di maturità.”
E ancora:
“Ma quel sogno, quel sogno
ostinato.
Il rumore lieve degli zoccoli
che con un rapido tocco
fanno scaturire l’acqua dalla
roccia.”
E ancora:
“e se io potessi parlare, se in
quel luogo
continuasse a esistere una lingua,
voglio dire una lingua condivisa;”
Del
resto, non era una famiglia, quella di San Francesco? E la famiglia
di Francesco Petrarca? E quella sacra, la Sacra Famiglia?
Al
che, Sauro, tu puoi rispondere: “Sì, va bene, ma Petrarca, da
quella famiglia, uscì fuori poeta” (non santo, non profeta).
Poeta,
senza dubbio: il Poeta che scrive all’imperatore, al papa, a Cola
di Rienzo, al Doge, ai Colonna, al popolo di Roma; che si fa
ambasciatore, latore di suppliche, mediatore, oratore, paciere; che
è: “l’uomo
più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di
tutti i tempi”- scrive Wilkins- e, straordinariamente, conclude:
“grande, soprattutto
per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione
delle sue amicizie”*.
Del
resto, non ci sono forse circostanze d’emergenza? Situazioni
strane?
In
cui si ha l’obbligo di rifare, diversamente, stranamente, ma in
fondo in fondo proprio analogamente, un rinnovato “De vulgari
eloquentia”?
Coraggio,
amici. All’opera.
* da Ernest Hatch Wilkins, Vita del
Petrarca, Feltrinelli, Milano, 1985, pref. pag. 9. L’intera
prefazione dice così:
“ Francesco Petrarca fu l’uomo l’uomo,
non il poeta più grande del
suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi.
Fu ed è grande per la consapevolezza con
cui partecipò, sullo sfondo ampio di tutto un continente, al dramma
della vita europea allora in atto; per la consapevolezza che ebbe
dei tempi passati e dei tempi a venire; per l’ampiezza e la
varietà dei suoi interessi (egli fu, fra le molte altre cose,
giardiniere, pescatore e liutista); per la elevata perfezione dei
suoi scritti; per la fede che ebbe costantemente in Roma come
capitale legittima d’un mondo unificato, governato politicamente
dall’imperatore e spiritualmente dal papa; per la precocità della
sua attività di filologo e la coraggiosa operosità dei suoi ultimi
anni; per gli onori che ricevette e gli antagonismi che suscitò;
per la fedeltà agli studi e all’attività letteraria, che furono
la sua più importante occupazione; e soprattutto per la ricca
varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue
amicizie.
Egli è anche grande (grazie soprattutto
alle centinaia di lettere e alle note scritte sui margini delle
pagine dei suoi libri, che sono state con tanta devozione studiate)
per il fatto che noi conosciamo le sue esperienze di vita con molta
maggiore profondità che non quelle di qualsiasi altro essere umano
vissuto prima di lui”.