venerdì 26 giugno 2009

UN PUNTO OLTRE L'ORRORE. LA POESIA DI DANIELE MENCARELLI

Questo è un poeta vero, limpido e forte - righe di cemento e di vetro, direbbe Fortini traduttore di Brecht, davvero poesia che è poesia, cioè ricerca stilistica, non semplice trascrizione diaristica - eppure anche, e non per riprendere una formula oggi abusata, testimonianza umana, intensa, senza lenocini, "vita fedele alla vita" - dolente umanità còlta con immediatezza rara e invidiabile, senza schermi né mistificazioni, nel momento dell'insensata ed umiliante sofferenza, quando, diceva Vittorini, "l'uomo è più uomo".

Si potrebbero fare vari nomi - Primo Levi, il Calvino della Giornata di uno scrutatore, il Solgenytsin di Padiglione cancro - anche se qui non c'è nessuna implicazione ideologica, solo un impegno etico teso fino allo spasmo doloroso.

Ma si erge, su tutto - al di là di ogni consonanza e di ogni parallelo, oltre i limiti della letterarietà -, quella che si potrebbe chiamare la nostalgia dell'umano - di un'umanità autentica proprio perché vilipesa, oscuramente redenta proprio quando appare, in tutta la sua evidenza, l'inesplicabilità, ma non necessariamente l'insensatezza, anzi forse il segreto, oltreumano significato, del suo sterile martirio che non salva nessuno, almeno qui e ora: tutte realtà che l'odierno patinato edonismo tende ad esorcizzare (un tabù, oggi, la sofferenza e la morte, mentre in passato lo era il sesso, oggi al contrario esibito e gridato), e che invece la poesia si assume qui la tragica e sacrale missione di riportare alla luce, di enunciare.

Si potrebbe citare, per un raffronto non privo di contrasti, certa letteratura della crudeltà, della sofferenza, del corpo lacerato, della carne piagata e scossa dagli spasmi (Sade, Lautréamont, Artaud, fino al Benn di Morgue – ma già l'Inferno dantesco rinserra l'eternità della pena senza redenzione né “speranza di morte” nella circolarità angosciosa, cupamente liturgica, oscenamente rituale, dei gironi).

Il dolore, l'orrore, la malattia, il disfacimento, la luce gelida ed impietosa del tavolo settorio sono qui mostrati, a tratti, con un'evidenza, un'immediatezza e una naturalezza che si vorrebbe definire quasi “pornografiche” - nel senso in cui Carmelo Bene definiva pornografica, alla fine del Processo, la sequenza in cui Josef K. è condotto a morte, ormai inerte, rassegnato, abbandonato all'impossibilità di capire il senso di un destino inflessibile ed impenetrabile.

A suo modo, per certi aspetti, una poesia “crudele”, che sa parlare senza timore (e con un grado ben più alto ed intenso di autenticità rispetto alla tanta letteratura minimalista, pulp e splatter che spaccia per realismo il fumettistico compiacimento dell'orrido) di volti divorati dal male, di corpi devastati dall'infezione, di membra sezionate; eppure, una poesia che riscatta il dolore, che lo redime alla luce di un'umanità assoluta, protesa, per così dire, al di là di ogni ideologia, di ogni religione, di ogni etica: uno sguardo levato al di là di tutto, a fissare "un punto oltre l'orrore" - e quel punto è alonato e racchiuso proprio dalla luce impalpabile - lo si può dire senza enfasi - del Verbo poetico.

Si potrebbe citare ancora Benn (anche se qui - in quest'aria resa più spirabile dal tenue bagliore di una speranza riposta nel qui ed ora come nell'oltre, in questo spazio esistenziale colmato di senso dalla muta testimonianza degli eroi senza nome che parlano proprio attraverso queste pagine come tanti ebrei attraverso quelle di Levi - non c'è ombra del suo nichilismo): “... nel verso / esorcizzare le cose con la parola. (...) Nel verso / il monologo delle ore e della notte”.

(M. V.)


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Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come l’altra fortunosa umanità
ad invocarti per la più vana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.


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I primi orrori le facce funestate
agli inizi mi lasciavano di pietra,
gli altri operai rassicuranti,
“pure te ci farai l’abitudine”.
Il tempo ha continuato il suo dovere
ora per i nuovi sono io l’esperto
ma non so bene come aiutarli,
forse dovrei semplicemente dirgli:
“pure voi ci farete l’abitudine”,
vi abituerete ai piccoli malati
al pianto dei padri e delle madri
alle teste dei nati prematuri
ai corpi ordinati dentro le casse bianche.

(Padiglione S. Onofrio)


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Passarci mi tocca ogni mattina
di fronte a quella porta verde,
quante volte è stata spalancata
piena di parenti a farsi forza,
e come non capire chi tra quelli
fossero padre e madre fino a poco prima,
lo si capisce dal vuoto degli sguardi
persi in un punto che gli altri non vedono.
Ogni mattina che mi tocca di passarci
vorrei esaudito l’impossibile desiderio,
di vederla sparita, anzi mai esistita,
un muro di cemento al posto della porta,
in nessuno al mondo l’ombra di un ricordo
che gliela faccia mai più rivivere.

(Camera Mortuaria)


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Una mattina come tutte le altre
sole e piccioni freschi in cielo,
“prima o poi doveva capitarti”,
così gli altri operai mi dissero.
Non ho ricordi ad aiutarmi
tranne il tavolo d’acciaio bucherellato,
gli arnesi riposti nelle vetrate
l’odore pungente della formalina.
Ancora pago quell’attimo
quell’unico attimo d’innata curiosità,
ricordo barattoli e niente altro,
più che altro niente voglio raccontarti,
se non lo specchio al lato della stanza
che rifletteva uno frenetico a spazzare
a finire il prima possibile il suo dovere,
sudato zuppo con gli occhi vitrei allucinati.

(Pio XII, sala autopsie)


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Lo attraversammo quasi di corsa
il reparto degli infetti
reietti perfino dalla vista,
dalla medicheria arrivarono grida
impossibile non alzare lo sguardo,
vedemmo solo un corpo scarnito
passato da mille tubi trasparenti
e ancora l’atroce dolore urlato.
Uscimmo all’aria aperta
come riemersi dall’abisso,
di noi il più anziano mi si girò contro:
“tu che tanto speri e tanto credi
spiegami una possibile giustizia
di quell’agonia morte futura”.
Non risposi ma una voce
si alzò alta dalle viscere
“per questo credo di più ancora”.

(Padiglione Spellman)


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Non lo finirai il tuo tatuaggio,
le rose bianche, verdi le foglie e gli steli,
t’avrebbe preso quasi metà braccio
dicevi fiero al primo abbozzo,
e noi draghi alle tue spalle
dicendo fosse più giusto un diavolo
o Lucifero in persona
inciso sulla tua pelle.
Solo i gambi e le prime foglie
verranno con te sotto la terra,
le rose bianche, insieme fiorirete altrove.

(Stefano Scalise, operaio)


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Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.

(Padiglione S. Onofrio)



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Fra gli scaloni eterno è l’andirivieni
padri intenti a far la guardia ai passeggini
accenti sconosciuti che salutano famiglie
raggiungibili solo per una linea di telefono,
tutta una normalità risaputa sembra,
invece poi vedi la signora altolocata
correre ad abbracciare la zingara di strada,
chiederle se la bambina è un po’ ingrassata
se quella medicina ancora la disturba,
poi è la rom ingioiellata e scura
a voler da lei notizie sul figlio malandato,
ed intanto l’abbraccio si ripete,
parlano i loro sguardi che si fanno
a vicenda sembrano dirsi:
“anche tu resisti ancora, anche tu
sopporti la disgrazia con coraggio”.
Mesto l’ultimo loro saluto si alza:
“ci rivedremo tanto, di sicuro”.

(Padiglione Pio XII)

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