mercoledì 3 giugno 2009

METAFORE DELL'AIDS NELLA CULTURA CONTEMPORANEA

La pubblicazione del bell'articolo riguardante il colloquio fra Patrizia Garofalo e Paolo Ruffilli mi induce a riproporre qui un mio scritto di qualche anno fa, che affrontava il problema delle rappresentazioni letterarie dell'Aids, tipiche del puntinistico e frantumato minimalismo postmoderno, ma alle quali la poesia di Ruffilli - cantabile e insieme drammatica, melodiosa e dolente, terrestre e celeste come nell'ultimo Luzi - aggiunge una nota più alta e pura, che va al di là di contingenze ed emergenze storiche e sociali destinate (si spera) a mutare, e investiga quasi metafisicamente il mistero della sofferenza e del male; mistero, mysterium tremendum oggi occultato, rimosso, marginalizzato, e dunque esso stesso confinato, si direbbe, nella "provincia dell'essere", quando non fiduciosamente e trionfalisticamente esorcizzato dalle certezze, talora arroganti, della scienza.

E colgo l'occasione, non pretestuosa, credo, né peregrina, per riprodurre, perché non si perdano nel nulla, alcuni appunti che presi a caldo, subito dopo la lettura delle Stanze del cielo, raccolta di Ruffilli edita nel 2008 da Marsilio, e quasi dimenticati, sepolti iin qualche foglio sgualcito del "libro della memoria".

E', nelle Stanze del cielo (sorta di fugato, dolorosamente melodioso, dialogo in absentia fra un carcerato e un drogato, entrambi prigionieri, l'uno delle mura, l'altro della chimica infernale in cui cerca l'oblio), davvero meraviglioso il conflitto, il discidium vitale e tragico fra la prigionia reale e l'illusoria evasione - fra la vita-morte, o morte-vita, dei segregati e la libertà, la trasgressione, l'"evasione" ingannevoli, e in realtà ugualmente vincolanti, della droga.

Eppure, c'è una sorta di duplice tensione mistica (lo sguardo levato verso le "dimore del cielo", gli ormai anch'essi aridi, sordi e desolati "templa serena" di una possibile ascesa metafisica, nella prima parte; e, nella seconda, l'autodissolvente, autodistruttiva immedesimazione, vagamente "beatnik", ma ben più consapevole, filtrata ed amara, con l'assoluto, l'essere, l'eterno, simulata dai paradisi artificiali delle droghe).

Ma è una tensione che infine sfocia e si disgrega (un po' come in quella mistica negativa, in quella sacralità del Nulla, del Vuoto, del Silenzio, che è del Buddismo come di certa teologia monastica) nel deserto dell'annientamento, nel naufragio della tenebra fonda.

E nel lettore (ma questa non è che una mia impressione del tutto soggettiva) può infine restare come il senso sospeso, limbico, di un'oscillazione quasi baudelairiana tra inferno e cielo, tra beatitudine e dannazione; e come la scia o l'eco di una tentazione, di una seduzione dell'annullamento, della nientificazione, della "morte del tempo", dell'eterno ossessivo ripetersi, che saranno comunque, paradossalmente, e forse fatalmente, purificatrici, con qualunque mezzo vengano colmate e placate; e che apriranno, forse, un insospettato sentiero verso un - direbbe Heidegger - "vivere autentico" conseguito proprio nella morte e nell'annientamento, che almeno liberano dalle catene del tempo e dalle maschere della socialità.

Sembra a volte che Ruffilli riscriva nichilisticamente (ma nel senso del Dio "nihil aeternum", o dello zanzottiano "ricchissimo nihil") Eliot - quello dei "Four Quartets", con il suo "tempo irredimibile", ma anche quello della "Rocca", che in Ruffilli diviene eterna ed immobile fortezza carceraria, più che strenuo baluardo di valori eterni.

Ci sarebbe molto altro da dire. Ma leggo in un mistico medievale che ogni conoscenza, ogni dire tendono di per sé all'infinito, e devono infine rassegnarsi alla loro limitatezza, alla loro gloriosa pochezza, al loro luminosissimo vuoto.

giugno 2009

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Le taglienti riflessioni sviluppate negli ultimi anni da Susan Sontag (da Malattia come metafora a L'Aids e le sue metafore, recentissimamente riuniti negli Oscar Mondadori sotto il titolo Malattia come metafora) hanno mostrato come i linguaggi della medicina, dei media e, in qualche caso, della stessa letteratura, adibiscano spesso la metafora a mezzo terroristico, a strumento di una specie di sortilegio che avvolge la malattia (il cancro come l'Aids) entro un alone di minaccia inesorabile, di fatale castigo, di degradante contaminazione.

A questo tipo di metafore della malattia gli scrittori possono però opporre una retorica di segno diverso, non necessariamente minacciosa e intimidatoria, che presenta la malattia non tanto o non solo come un'infermità fisica, un'alterazione organica, ma piuttosto come uno stato esistenziale, una chiave di lettura del reale, a volte addirittura come una paradossale scelta di vita, una forma di allontanamento dal mondo, una condizione sospesa ed estatica che prelude alla creazione: basti pensare a certe pagine decadenti (il Baudelaire degli scritti su Poe, il D'Annunzio del Piacere, il Mann della Montagna incantata), o al mito crepuscolare del “mal sottile”, o ancora alla malattia sveviana, intesa come “convinzione”, disagio psicologico, esasperata attitudine autoananalitica che paralizza l'azione.

Negli anni '80, l'irrompere dell'Aids ha suggerito agli scrittori un nuovo impiego della retorica della malattia.

Qualcuno ricorderà, in proposito, certi versi del Libro di poesia di Dario Bellezza, in cui l'Aids appariva personificato come un “nero angelo” che recava con sé un iniquo e paradossale castigo destinato ai “vecchi peccatori di un minuto”, e il poeta, quasi delineando una fosca profezia del proprio destino, chiedeva di essere “leccato” e “bevuto” dal morbo.

L'Aids è divenuto uno dei temi ricorrenti della narrativa d'ispirazione minimalista e pulp, che ha nella deriva e nella dispersione dei significati, nel frenetico spostamento dei centri e dei punti di riferimento, nella disgregazione delle strutture, uno dei suoi elementi essenziali; quasi che l'Aids, con le ferite e le deturpazioni che infligge alle carni, non potesse trovare una compiuta espressione letteraria se non attraverso una scrittura analogamente lacerata, dilaniata, decostruita.

Nondimeno, anche davanti alla sofferenza e all'orrore, la parola letteraria può conservare un suo spessore e una sua dignità.

Ne sono testimonianza due volumi usciti recentemente, il cui accostamento, dovuto al tema (l'Aids, appunto) è reso significativo anche e proprio dalla diversità di formazione, indole e vicende individuali che divide i due scrittori.

Il primo dei due libri in questione è Questo buio feroce (storia della mia morte) di Harold Brodkey, una sorta di allucinato diario d'infermità scritto nell'imminenza della morte ormai certa, dopo la diagnosi di malattia conclamata. In questo senso, Questo buio feroce rappresenta quasi un'estrema, cupa propaggine, tesa fino alla soglie del buio, dell'effuso discorso autobiografico già sviluppato nel romanzo fiume The runaway soul. E si ritrova qui - per quanto ormai impallidita, prossima alla definitiva disgregazione - la stessa immagine che Brodkey volle lasciare di sé in quell'opera più vasta: il ritratto di uno scrittore ribelle e maledetto, che aveva alle spalle una giovinezza segnata dall'inquietudine, dall'estraneità, dalla diversità sessuale e caratteriale, e che proprio della diversità faceva la propria bandiera, la propria maschera, il proprio difficile tramite per rapportarsi con il mondo della comunicazione.

La scrittura si snoda lungo l'esile lembo di luce che separa la vita dalla morte, la voce dalla quiete. La parola batte alle porte del silenzio, “un silenzio dolcemente indiscreto e irresistibile”, in cui l'autore intreccia con se stesso un “dialogo muto”, e che è poi anche il “silenzio di Dio”, che egli ha sempre avvertito, condizionato in questo anche dalle sue radici ebraiche.

E l'imminenza della morte segna anche la percezione del tempo, che diviene “durata reale”, tempo dell'anima, dello scavo interiore, della rievocazione autobiografica a volte impietosa, tutta giocata sul “tremolio di questo limite del tempo che ti rimane”; un tempo che a volte - segnato com'è dall'”andirivieni dei significati” - appare privo di ordine e di senso.

Ci si può chiedere che cosa resti, che cosa vada immune da questo ”andirivieni dei significati”. Ciò che permane, ciò in cui l'autore continua a nutrire un'incrollabile, quasi umanistica fiducia, è la scrittura, il linguaggio, con la sua “immediatezza ammiccante e debolmente radiosa”, il suo potere quasi narcotico. L'autore si definisce un “tossicodipendente del linguaggio”, pervaso da “un desiderio struggente delle parole degli altri, di amare gli altri per le loro parole”.

È proprio il tema della malattia e della morte ad accomunare l'opera di Brodkey a quella di uno scrittore da lui tanto diverso per indole, sensibilità e formazione, cioè Paolo Ruffilli, autore del poemetto La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids.

In questa raccolta è possibile ritrovare, anche sulla scorta della prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, lo stesso respiro metrico che animava le prove precedenti, da Piccola colazione a Diario di Normandia a Camera oscura: un inconfondibile verso breve, che raramente eccede la misura dell'ottonario, e che può svariare, volta a volta, con grande versatilità, da un andamento melodico e cantabile, che si direbbe rievochi certe serene e limpide armonie settecentesche, ad un'essenzialità lirica e ad una concisione rastremata che ricordano Ungaretti, per arrivare a volte ad un gusto postmoderno per il frammento, l'aforisma, la scrittura segmentata e nervosa (era Roland Barthes a parlare, a proposito di un precedente lavoro dell'autore, di una scrittura intesa come “spazio di morte” e “lettera della trafittura”).

Il poeta coglie il tragico paradosso di un male - “delitto atroce” di una leopardiana “natura indifferente” - che costringe i genitori a piangere i figli: “i padri seppelliscono / i figli, si prendono cura / delle loro vite perdute, / li stringono feriti / fra le braccia, li / vegliano morenti”.

Sennonché, uno dei messaggi più forti e più limpidi che emergono da libro è proprio la compenetrazione di morte e vita, la percezione (presente anche nella Montagna incantata) che la vita trae alimento dalla morte, e che l'esperienza della morte può essere iniziazione alla vita: la morte non è se non “l'altra faccia / rimasta in ombra / della vita”; “il lutto / chiama la vita, non altra morte”.

Ruffilli, che tra le altre cose ha tradotto Il Profeta di Gibran e il Tao-teh-ching, sembra avere appreso dall'uno che il segreto della morte va cercato “nel cuore della vita”, “perché la vita e la morte sono una cosa sola, così come una cosa sola sono il fiume e il mare”, dall'altro che “Essere e non-essere si generano l'un l'altro”.

Né manca, in quest'idea dell'essere vivente che muore “per essere rinato” e si consuma “per essere risorto”, un possibile richiamo alla concezione paolina del Cristo primogenitus mortuorum, dell'uomo che “muore corpo mortale” e “rinasce corpo spirituale”.

E il discorso poetico di Ruffilli si risolve infine in un'apoteosi di luce e di silenziosa armonia cosmica, che può ricordare il “miro gurge” e il “lume in forma di rivera” del Paradiso dantesco, così come certe folgoranti epifanie dei Four Quartets di Eliot. Oltre la morte, dice il poeta, “nello splendore / cosciente della luce”, “fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l'eterno nel presente”.
H. Brodkey, Questo buio feroce. Storia della mia morte, Rizzoli.
P. Ruffilli, La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio.
S. Sontag, Malattia come metafora, Mondadori.

(2003)

Per acquistare La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids di Paolo Ruffilli:
Per acquistare Questo buio feroce. Storia della mia morte di Harold Brodkey
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