giovedì 28 novembre 2019

Giancarlo Pontiggia, "Quanto pesa il cielo sulla poesia contemporanea. Riflessioni sul rapporto fra scienza e letteratura"



Ho l'onore di presentare il testo di una conferenza su poesia e scienza che Giancarlo Pontiggia ha tenuto a San Mauro Pascoli.
Essa rientra appieno, per indole e caratteri (come si nota immediatamente, avvertendovi, quasi, un tono e un ritmo familiari), nella tradizione della saggistica e della critica dei poeti (Montale, Eliot), che fonde una erudizione mai gratuita con un autentico afflato lirico e un caldo fervore conoscitivo.
Certi accostamenti, che devono il proprio fascino precisamente al loro carattere repentino e sorprendente, e perciò ancor più illuminante, sono proprio l'elemento peculiare della critica dei poeti.
Alcuni testi dell'autore come Penso l’estremo del frammento sembrano tutti attraversati da quella stessa aleatoria e insidiosa vibrazione quantica di cui tratta la conferenza. "Tra i pochi frammenti di quel cielo / fiammante e impervio / rassicuro i vostri sciami ronzanti, e riprendo / il cammino (oh, ma fra quali ombre e quali / urti?)". Qui la realtà fenomenica pare davvero, come nella fisica contemporanea, null'altro che una sottilissima corazza di elettroni sotto la quale si agita l'infinità del buio e del vuoto. La stessa finissima tramatura fonica dei versi e delle sillabe sembra velare gli abissi della memoria, i gorghi intorti dei molti significati possibili. Ma infine è la Parola poetica, il Verbum, il carmen, che nonostante tutto consente di inoltrarsi nella nebbia di quell'avvolgente vibrio "con passi / certi / come un’antica preghiera".
Forse la visione quantistica non è inconciliabile con l'umanesimo. Proprio l'evanescenza, l'aleatorietà dei fenomeni - proprio la relativizzazione, la dissoluzione quasi, dell'oggettività, della datità - potrebbero indurre a rivisitare l'idea della centralità dell'uomo, dell'uomo-misura, dell'uomo-metron: in questa chiave potrebbe essere letto il principio di Heisenberg. Del resto, secondo il "principio antropico" l'universo, malgrado la sua aleatorietà, l'apparente assoluta casualità della sua origine da una primordiale "schiuma quantica" (che fa pensare tanto al Caos di Esiodo e di Ovidio quanto al vuoto e all'abisso, al tohu va bohu, della Genesi biblica, su cui aleggiava la ruah, lo Spirito di Dio), è così com'è proprio perché, se così non fosse, noi non potremmo conoscerlo.
E l'imprevedibile clinamen di cui parla Lucrezio, l'imponderabile moto di deviazione e aggregazione degli atomi che dà forma ai corpi e agli esseri (come le lettere alle parole, e le parole ai versi) non è poi molto differente dall'indeterminazione quantistica (secondo un'affinità che, malgrado le differenze macroscopiche, Heisenberg riteneva non potesse essere casuale); né l'ispirazione e la creazione poetiche, nel dare, sincronicamente e diacronicamente, forma all'informe, coesione e comunicabilità all'istante vertiginoso e difficilmente governabile e disciplinabile (tanto che l'autorità intellettuale, e spesso anche politica, ha sempre cercato di legiferare sulla poesia come sull'amore, sulla religione, sulla guerra) dell'intuizione e della dantesca, aurorale "volontà di dire", sono poi molto dissimili dalle "strutture dissipative", dagli impulsi e dai vettori dell'"autopoiesi" che, nel mondo fisico, generano spontanemente, per moto proprio, ordine dal caos. 
Bigongiari, il tanto incompreso e vilipeso Bigongiari, in Antimateria, seppe dare mirabilmente voce poetica alla visione quantistica:

Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.

Il caos - almeno apparente - della materia e degli eventi si ricompone proprio nella Parola - che pure è, proprio per questo, segnata dal tremore di un'inquietudine insanabile, dalla possibilità e dalla pulsione di una disgregazione. Lo stesso vale, in fondo, per la materia vivente; che solo un misterioso principio neghentropico, solo una oscura e severa volontà di persistenza, trattiene dalla dissoluzione - così come la mente resiste, disperatamente, alla follia.
Forse, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è stata, nel secondo Novecento, una poesia più vicina al lirismo tradizionale, più tesa a salvaguardare l'integrita dell'io lirico come principium individuationis, e non la poesia sperimentale e d'avanguardia, "atonale" o "informale", ad esprimere questa ricerca di ordine nel caos, dell'unità e del senso nella deriva dell'entropia.
Il che significa che forse vale ancora, pur in un orizzonte di senso e in una visione dell'universo radicalmente mutati, ciò che scriveva Matthew Arnold in Science and Literature. La poesia (ma già Leopardi in fondo intuiva qualcosa di simile) deve ricomporre, attraverso l'analogia, le ferite e le fratture che la dissezione dell'analisi scientifica ha inferto al volto e al grembo della Natura.
Oggi l'indeterminazione quantistica (analogo fisico, in fondo, della pulviscolare polisemia del discorso poetico da Mallarmé in poi) offre al poeta un nuovo serbatoio di metafore. E la possiiblità, paradossale, di un nuovo, ennesimo, estremo e postremo, forse, classicismo; forme perfette e insieme imperfette, fatalmente frammentarie; intimamente segnate, però, dall'armonia a cui tesero invano, e, nel contempo, intrise e venate delle inquietudini e degli smarrimenti immedicabili da cui sorsero, e su cui continuano a fluttuare e vibrare, come la materia sul caos cui è destinata a tornare, e come l'illusione della realtà sull'abisso del nulla. (M. V.)

martedì 9 luglio 2019

Sulla traduzione intralinguistica



(riprende ed amplia un contributo apparso su “Atelier”, XXIII, 2018, n. 90, pp. 59-61)

Qualche riflessione può essere ispirata dall'inchiesta che la rivista Atelier ha recentemente dedicato al tema, relativamente poco esplorato, di quella che Roman Jacobson chiamava, in alcune pagine teoriche del 1959, intralinguistic translation, intesa come rewording, trasfigurazione o transustanziazione di un testo da una forma all'altra, ma all'interno dello stesso idioma.
Ci si può chiedere se le traduzioni invecchino; se esse risentano, al pari di ogni altro testo, del passare del tempo, e finiscano per essere velate da una pàtina d'estraneità e d'anacronismo.
Ma una traduzione artisticamente e stilisticamente degna di un'opera che abbia essa stessa dignità d'arte, che non sia letteratura commerciale ed effimera, è a tutti gli effetti a propria volta un'opera letteraria, un'opera creativa, e come tale è espressione sia dell'autore tradotto che del traduttore che dei sistemi culturali e letterari a cui essi appartengono. Il valore artistico, culturale, storico, testimoniale di quel testo continuerà ad essere vivo e a parlare ai posteri.

domenica 7 luglio 2019

A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni



Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
                 o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende

(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)

(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)

e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente

(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)


                                                  Matteo Veronesi

giovedì 4 luglio 2019

Alcuni versi, fra italiano e romeno

È stato detto che ogni atto di traduzione tende a gettare luce sulla lingua originaria, sull'idioma universale e prelinguistico, sul pensiero anteriore e puro − quasi un fondo candido e silente − che soggiace a tutte le lingue, senza che nessuna di esse possa esaurirlo ed esprimerlo compiutamente.
Di ciò mi accorgo specchiandomi, per così dire, in queste versioni rumene (che sono anche nuove creazioni) che l'amico poeta George Pașa ha realizzato, nel tempo, traendole da miei testi. Versioni che ora propongo non solo per innegabile narcisismo, ma soprattutto come occasione di riflessione sulla lingua.
Due lingue, italiano e rumeno, sorelle e insieme diverse: da un lato per il fondo latino, con la sua dolcezza, il suo canto, le sue distese aperture vocaliche; dall'altro per le asperità, le durezze e gli acuminati nitori che derivano dall'apporto slavo.
Un solo esempio.

Una mia poesia tradotta in francese da Jean-Charles Vegliante

Non è solo per narcisismo letterario (pur presente, confessato, e perfettamente umano) che ripubblico qui la squisita traduzione che di un mio testo, tratto dalla raccoltina Tempus tacendi (Lugano 2017), ha dato ( https://www.recoursaupoeme.fr/amont-devers-dixieme-livraison/ , 5 novembre 2018 ) Jean-Charles Vegliante, finissimo italianista, e fra le massime voci della poesia e della critica francesi; ma anche perché, tradotta in francese, la mia poesia torna, per così dire, alla propria origine, dato l'influsso decisivo e vitale che su di essa ha esercitato la tradizione letteraria transalpina, dai Simbolisti a Valéry (forse anche con un possiblie eccesso, di cui sono consapevole, di rarefazione allusiva, di assolutizzazione estetica).
O, forse, la parola trova nel francese la via maestra per riavvicinarsi a quell'originario fondo di puro e nudo silenzio da cui essa sorge, e a cui forse essa tenta costantemente invano di tornare. 
"Muta" diviene, in francese, "sans bruit"; e non posso non pensare al "bruit doux de la pluie" di Verlaine (che diverrà la dannunziana "pioggia che bruiva", la voce della Natura ad un soffio dal silenzio, sulla soglia dell'indistinto della Madre-materia originaria); e, quasi per pseudoetimologia, nel testo quel "bruit" si incatena, allitterativamente, a "brûle", "arda"; come se il suono vivesse e ardesse del proprio stesso estinguersi – fino a dissolversi nelle liquide e nelle sibilanti della chiusa ("qu’elle ait l’aveugle / force inépuisable de la faiblesse"), sospeso, quasi, sul Presque-Rien, sul Presque-Silence di Jankélévitch. (Matteo Veronesi)   

venerdì 29 marzo 2019

"Mésalliance. Estensione del caso Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio


Lotta di Classico, Genova 2019. Progetto grafico di Massimo Sannelli.

https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2019/03/me.pdf




Un odore e un colore (di incenso) (noi
avevamo confidenza...)
Un riflesso, una sosta, una pace all’altare – una corsa
civile... Ma io voglio sapere dove eri. E io voglio sapere come
stavi. E perché eri perduto? (ha parlato
la femmina).
perché non eri qui? – quando non ero
nato, fu una mossa infelice, fu questa,
che si vede: due esseri e due averi, ma tutto
si salverà. e tu fatti centauro, no? fatti centauro.

Con questi versi mi ricollego all’exit – un congedo che attesta una intenzione – del Caso Massimo Sannelli (2016): versi allora inediti, poi usciti in Memoriale della lingua italiana (2017).
Parlano di un centauro. Il riferimento non è solo all’astrologia di un autore nato il 27 novembre: sarebbe troppo semplice e anche ingenuo. Stiamo alla prospettiva mitologica: il centauro è una figura ibrida e anche magistrale, combattiva e contemplativa, e lo è contemporaneamente (forse, più umilmente, più sommessamente, anche i poeti, come il Principe, sospesi e divisi tra istinto e ragione, tra corpo e mente, tra visceralità e sublimazione, furono "dati a nutrire a Chirone centauro").
È chiaro che Sannelli tende a questo: ibridismo (delle forme e dei mezzi), magistero (molto informale), azione, contemplazione, tutto nello stesso tempo. E i versi citati – tanto leggibili quanto illeggibili, tanto dolci-docili quanto perentori – costituiscono un imperativo: amare la dualità (due esseri, il maschio e la femmina, evidentemente due lati che Sannelli riconosce in sé) purché risolta in unità (il centauro, l’ibrido). Né moderno né postmoderno ma classico.
Ma chi è classico? Foscolo, Mozart, Balthus? Oppure è classico chi pratica la molteplicità, vivendo – da mortale ovviamente, inevitabilmente – come se fosse non ovviamente immortale? È classico chi aggredisce il presente con uno sguardo tanto multimediale quanto intemporale.
E ciò implica una lotta. Perché classico – come diceva Mandel’štam, autore amato da Sannelli, anche per la Conversazione su Dante – è qualcosa che deve ancora venire (di qui la sensazione, di fronte a Sannelli, di un autore inattuale). La dimensione centaurica sembrerebbe ora un obiettivo realizzato, ma la lotta di classico è qualcosa che dura una vita. È usus vivendi piú che usus scribendi. Questa brevissima nota è già un segnale, un indizio per una aggiunta a Mésalliance, che è una aggiunta a Lotta di Classico.
Il caso Massimo Sannelli. Quindi una estensione dell’estensione.

venerdì 1 marzo 2019

Elisabetta Brizio - "Niente vuol dire niente". Niímptem. Un diario di Massimo Sannelli*



Un frisson nouveau, un brivido nuovo: questo, come nel caso di Hugo di fronte a Baudelaire, è ciò che si prova di fronte ad ogni nuova pagina di Sannelli. Libro, questo, nato da frammenti abbandonati dapprima alla rete (quella rete - caos e ricchezza infinita, selva o labirinto di ogni possibile aberrazione ma anche inesauribile miniera di bellezza - di cui l'autore, a differenza di molti intellettuali che vi vedono forse un pericolo per la loro egemonia, coglie le enormi potenzialità, la ricchezza vastissima ed inquietante) e poi raccolti, a posteriori, nella compostezza della pagina (pure essa stessa virtuale, immateriale, destinata a rivivere nella mente del lettore), un po' come il Libro segreto di D'Annunzio, estrema e frammentaria autobiografia, discontinuo ed intermittente, eppure sapientemente architettonico, carmen perpetuum; libro in cui non è certo casuale il richiamo (da John Cage a Cecil Taylor - ma si potrebbe aggiungere Scelsi) a certe forme di musica atonale, informale, improvvisativa, fatta di gesti quasi più che di suoni intellettualmente concepiti e calcolati; musica risolta, in definitiva, nel momento aleatorio ed irripetibile dell'esecuzione. "Il mondo free e improvvisato calma il lago del cuore e non nasce nessuna 'tirannia dei rapporti'. I free sono il premio che la bocca mobile cerca e mangia, mille volte". L'angoscia infernale del dantesco lago del cuore trova o crede di trovare pace nella libertà del suono senza regole. Eppure si sentono, nel contempo, Schubert e Petrarca - si avverte l'anelito ad una ricomposizione dei conflitti, pur presenti e vivi, in una superiore armonia che si proietta, forse, oltre il tempo, oltre il qui ed ora, in una virtuale ed immateriale perennità paradossalmente affidata proprio alla liquidità labirintica e meandrica della Rete. "un orecchio medio ascolta un altro orecchio, che è supremo. un orecchio del presente ascolta un orecchio diverso da sé". Vi è, quasi, in questa aspirazione, qualcosa di mistico (come i due occhi di Angelus Silesius volti l'uno al tempo che passa, l'altro all'eterno). "Questa non è la mistica e non può esserlo: perché è ancora il campo del Piacere, tutto voluto. Ecco un errore possibile, ma sontuoso e sonoro, e sinuoso (è anche inesauribile). Però l’errore è senza carne, ora: non per virtù di castità, mai, ma per asocialità gelosa, golosa di molto suono, e suono, e suono". Ancora come in D'Annunzio, l'"amor sensuale della parola", pur così intensamente assaporato, pur deposto negli stessi giochi d'eco della scrittura, ai limiti dell'autonomia del significante (sontuoso sonoro sinuoso) mira a sublimarsi e dissolversi in "carne senza carne", in "sensualità senza carne", in pura e forse illusoria suggestione: sebbene il suo suono sia esso stesso gesto, e l'espressione sia dunque anche corpo, sofferta come la carne da cui nasce, in cui è quasi incisa e scavata. Ma non c'è, in Sannelli, alcun compiacimento estetizzante, alcun simulacro di "vivere inimitabile". La possibilità stessa della Destra Sublime, del superiore Fascismo senza volgarità e senza violenza, che sia solo Tradizione, Grande Stile, storicità, identità, degno dunque dell'immedesimazione e del sacrificio del Singolo, vagheggiati da Pasolini, appare vanificata dalla becera rozzezza dei neofascismi attuali. Di quel vivere inimitabile, l'esperienza di Sannelli è insieme parodia quasi crepuscolare e tremulo fantasma; vagheggiamento supremo e quasi eroica, eppure lucidamente rassegnata, impossibilità. (M. V.)

Niímptem. Un diario è un e-book che riunisce i testi italiani del Diario online tenuto da Massimo Sannelli nel corso del 2018. Niímptem vuol dire niente, nel personale petèl dell’ex bambino che fondò un regno in una stanza di Albenga – e l’adulto non romperà l’incantesimo che non c’è mai stato. Sembrerebbe un’opera non destinata ad aprire ad altro, dove Sannelli lascia intuire che il suo tempo di poeta, per dirla con Pasolini, è abbastanza finito. È una delle ultime opere del sé letterato, come ha detto. Ma non ci scommetterei, lui non è davvero il tipo per cui valga il «Nevermore», per lo meno per certe forme di arte.

martedì 8 gennaio 2019

Giselda Pontesilli, «Del sentire cattolico»* (Omaggio a Mario Perniola)





Sto seduta in una scuola

che non ho mai frequentato

in un’aula d’altri tempi
in un banchetto di legno lavorato
in un lontano passato:

meraviglioso oggetto
col piano, leggermente inclinato,
di riposata, ripensata altezza
che educhi conforti
a una posizione lieta
desta: è
apribile (all’interno
si possono riservare varie cose)
e di lato
ha una specie di piccolo
scaffaletto, per gli antichi libri -penso-
che -col pensiero- vi trasporto
vi metto.

L’aula è ampia
con tende veneziane
alle vetrate ampie, bianche, arcuate.
La cattedra
in alto, dominante
è di forma non pesante, svasata
è davanti a una grande
croce lignea dipinta,
con il Cristo: un’icona
e di fianco
in simmetrica asimmetria differenza
Venere con le Grazie
di Botticelli.

Siamo nell’Istituto
Villa Sora, dei Salesiani
vi si stanno svolgendo,
non in quest’aula, esami
di idoneità.

*Tra gli altri, Del sentire cattolico è un lavoro di Mario Perniola.