martedì 9 luglio 2019

Sulla traduzione intralinguistica



(riprende ed amplia un contributo apparso su “Atelier”, XXIII, 2018, n. 90, pp. 59-61)

Qualche riflessione può essere ispirata dall'inchiesta che la rivista Atelier ha recentemente dedicato al tema, relativamente poco esplorato, di quella che Roman Jacobson chiamava, in alcune pagine teoriche del 1959, intralinguistic translation, intesa come rewording, trasfigurazione o transustanziazione di un testo da una forma all'altra, ma all'interno dello stesso idioma.
Ci si può chiedere se le traduzioni invecchino; se esse risentano, al pari di ogni altro testo, del passare del tempo, e finiscano per essere velate da una pàtina d'estraneità e d'anacronismo.
Ma una traduzione artisticamente e stilisticamente degna di un'opera che abbia essa stessa dignità d'arte, che non sia letteratura commerciale ed effimera, è a tutti gli effetti a propria volta un'opera letteraria, un'opera creativa, e come tale è espressione sia dell'autore tradotto che del traduttore che dei sistemi culturali e letterari a cui essi appartengono. Il valore artistico, culturale, storico, testimoniale di quel testo continuerà ad essere vivo e a parlare ai posteri.

domenica 7 luglio 2019

A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni



Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
                 o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende

(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)

(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)

e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente

(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)


                                                  Matteo Veronesi

giovedì 4 luglio 2019

Alcuni versi, fra italiano e romeno

È stato detto che ogni atto di traduzione tende a gettare luce sulla lingua originaria, sull'idioma universale e prelinguistico, sul pensiero anteriore e puro − quasi un fondo candido e silente − che soggiace a tutte le lingue, senza che nessuna di esse possa esaurirlo ed esprimerlo compiutamente.
Di ciò mi accorgo specchiandomi, per così dire, in queste versioni rumene (che sono anche nuove creazioni) che l'amico poeta George Pașa ha realizzato, nel tempo, traendole da miei testi. Versioni che ora propongo non solo per innegabile narcisismo, ma soprattutto come occasione di riflessione sulla lingua.
Due lingue, italiano e rumeno, sorelle e insieme diverse: da un lato per il fondo latino, con la sua dolcezza, il suo canto, le sue distese aperture vocaliche; dall'altro per le asperità, le durezze e gli acuminati nitori che derivano dall'apporto slavo.
Un solo esempio.

Una mia poesia tradotta in francese da Jean-Charles Vegliante

Non è solo per narcisismo letterario (pur presente, confessato, e perfettamente umano) che ripubblico qui la squisita traduzione che di un mio testo, tratto dalla raccoltina Tempus tacendi (Lugano 2017), ha dato ( https://www.recoursaupoeme.fr/amont-devers-dixieme-livraison/ , 5 novembre 2018 ) Jean-Charles Vegliante, finissimo italianista, e fra le massime voci della poesia e della critica francesi; ma anche perché, tradotta in francese, la mia poesia torna, per così dire, alla propria origine, dato l'influsso decisivo e vitale che su di essa ha esercitato la tradizione letteraria transalpina, dai Simbolisti a Valéry (forse anche con un possiblie eccesso, di cui sono consapevole, di rarefazione allusiva, di assolutizzazione estetica).
O, forse, la parola trova nel francese la via maestra per riavvicinarsi a quell'originario fondo di puro e nudo silenzio da cui essa sorge, e a cui forse essa tenta costantemente invano di tornare. 
"Muta" diviene, in francese, "sans bruit"; e non posso non pensare al "bruit doux de la pluie" di Verlaine (che diverrà la dannunziana "pioggia che bruiva", la voce della Natura ad un soffio dal silenzio, sulla soglia dell'indistinto della Madre-materia originaria); e, quasi per pseudoetimologia, nel testo quel "bruit" si incatena, allitterativamente, a "brûle", "arda"; come se il suono vivesse e ardesse del proprio stesso estinguersi – fino a dissolversi nelle liquide e nelle sibilanti della chiusa ("qu’elle ait l’aveugle / force inépuisable de la faiblesse"), sospeso, quasi, sul Presque-Rien, sul Presque-Silence di Jankélévitch. (Matteo Veronesi)