sabato 26 aprile 2025

Ex oppositis unitas amoris. "Fuochi di Lisbona" di Paolo Ruffilli

Non so se mi era

mai accaduto:

la combinazione

nella continuità

l’incastro più assoluto

Affari di cuore





Prologo. «L’abito rosso pieno di lune le si gonfiava palpitandole addosso ad ogni soffio. E io parlavo per bocca di Pessoa, guardandola negli occhi, sotto un ombrello aperto per ripararci dalla polvere dell’acqua». È il passaggio ecfrastico dell’immagine di copertina (opera di Jack Vettriano) che figura in uno dei punti cruciali di Fuochi di Lisbona, ultima opera narrativa di Paolo Ruffilli (Passigli Editori 2024, con Nota di lettura di Antonio Tabucchi). Non sfugge, lungo la narrazione, la ricorsività della forma avverbiale «addosso» (sulla persona, dentro di sé, in corpo), nome chiave, come in Affari di cuore, connotatore del testo nel suo diffuso designare, nell’idea di vicinanza, un forte coinvolgimento della dimensione del corpo, anche come spia della manifestazione fisica di condizionamenti psicologici o di stress emotivi, l’addensarsi sulla pelle di ansie e di paure. La parola implica il corpo come ricettacolo delle tensioni del mondo esterno, e attraversa tutta l’opera se pure, appunto, diversamente contestualizzata nell’articolazione narrativa.

Fuochi di Lisbona è un romanzo molto lirico cadenzato in modulazioni di pensiero, denso di atmosfere, più di suggestioni e di riflessioni che di eventi, riflessioni che sconfinano nelle parti dialogiche – a giudicare dalla serietà dei ragionamenti e dei giudizi dei pochi personaggi che vi figurano. Non romanzo mimetico puro, quindi, a tratti romanzo saggistico con inserti di carattere critico che differiscono il tempo del racconto, quando nella superficie narrativa si profila una soggiacente Weltanschauung, insieme a sparse, dirette o dissimulate, dichiarazioni di poetica.

Senza nome il protagonista maschile, prima persona del racconto, narratore omodiegetico perché presente come personaggio nella storia che sta narrando, autodiegetico – il così detto «grado forte dell’omodiegetico – in quanto coinvolto nella linea del racconto come personaggio principale. L’identità dell’io narrante emerge nei discorsi con altri personaggi, quando si rivela riflettendosi nel linguaggio. «Vita» è l’emblematico nome della protagonista femminile. Relatore a un convegno (nel quale avviene l’incontro casuale e folgorante con Vita) su Fernando Pessoa, a Lisbona, il set dell’azione diegetica, il protagonista si mette sulle sue tracce, e più ci si inoltra nella trama e più le due esistenze si incorporano, la seconda divenendo esplicativa della prima, quando la prima cerca nella seconda un senso dell’arcano dell’amore, che è l’arcano stesso della vita: Vita in questa fattispecie. Il protagonista si sente erede degli enigmi di Pessoa, sente di percepirli, di condividerli, quasi fossero, Pessoa dice, una «invisibile tenace ragnatela che ci avvolge, fatta di tante congiunzioni sotterranee...». Henrique, l’amico diplomatico del protagonista, prova a relativizzare certi eccessi di lui, sia nella circostanza dell’immedesimazione con Pessoa, sia in quella del rapporto amoroso con Vita, rapporto a rischio di perdizione e dalle conseguenze imprevedibili in quanto donna lusitana.

L’alternarsi dei caratteri tondo e corsivo, del tempo della narrazione e il tempo di Pessoa, nella dimensione spaziotemporale definita dal cronotopo romanzesco, salda nel profondo le anime dei due protagonisti pur nell’espediente letterario della differenziazione, e suggerisce un io narrante simmetrico, nella prospettiva aperta di un io narrante e un io narrato. Io è il protagonista conferenziere, io è Pessoa: i due piani narrativi nel tempo misto della scrittura e della letteratura si distinguono unicamente per i caratteri tipografici con cui sono scritte le loro storie, che nel pensiero del protagonista vengono riportate ad unità senza seguire un doppio filo tematico. È la regola che presiede alla visione di Ruffilli (e che farà dire all’occultista: «lei è del gruppo dei fluidi dall’occhio sfaccettato», quindi, più persone in una).

Il tempo narrativo è successione, decorso diacronico. Ancor più in presenza di esseri del passato, che qui potrebbero dar luogo a una sospensione della linearità dello scorrimento temporale, mentre li vediamo perfettamente situati nella temporalità della trama, malgrado la specularità dei contesti e il gioco dei rimandi nella costruzione testuale: protagonista-Pessoa, Vita-Ophélia (entrambe le donne sono di dodici anni più giovani degli uomini). L’alternanza, nello stacco tra tondo e corsivo, di presente e di passato, di vite reali e di vite letterarie comunque non finzionali (esistite anche fuori dello spazio narrativo), promuove questa coesistenza anziché marcare uno scarto temporale. Ma il sovrapporsi di realtà e di finzione – meglio, di eventi e temporalità asincroni, anche nel quadro di un Pessoa ortonimo –, se poi si aggiungono le traduzioni di Ruffilli delle parti corsivizzate, delle lettere e dei diari (nonché dei testi di Amália Rodrigues e di Herberto Hélder), sembra incrementare i livelli di lettura. Che la lettura sarà stratificata è quanto meno evidente. Leggevo che già solo le Lettere alla fidanzata costituiscono un doppio della realtà (un conto è l’amore, un altro le lettere d’amore), il che basterebbe per istituire un gioco di specchi, uno specchiarsi nella propria riflessione. Tuttavia, credo, lungi dal dar vita a vie di fuga, le superfici riflettenti in quest’opera non duplicano, non diffrangono, non disorientano verso altri domini con rifrazioni di controfigure astratte. Viceversa riorientano gli elementi speculari e simmetrici facendoli convergere in un unico punto (contraddizione come misura dell’unità, «la combinazione / nella continuità / l’incastro più assoluto», inerisca al Pessoa innamorato o al nostro personaggio), da far pensare che la specularità e il fattore del doppio non siano qui questioni dirimenti. Pessoa e Ophélia incrementano la trama e anticipano un destino, e anche in questo contesto l’intento di Ruffilli sembra essere la dimostrazione, lo vedremo, dell’incontro mente-corpo-ambiente con la corrente della vita nella sua totalità.

Eu sou o outro. La vita si fonde con la letteratura anche nella circostanza della relazione per il convegno (cioè l’occasione narrativa), redatta sotto forma di racconto. L’impressione del protagonista è «di entrare nella vita che è di un altro o che si infili un altro nella mia. Pessoa è quest’altro». Sembrerebbero entrare in gioco le figure freudiane e dostoevskijane del doppio, del sosia, che in Pirandello ricorrevano ossessivamente sotto i simboli dell’ombra e dello specchio quali referenti incorporei della maschera, di una autoriflessione critica dissolvente le identità individuali dei personaggi. Eppure, proprio nell’ottica della alterità, del non identico, potrebbe cadere la centralità del tema del doppio, dell’ombra di Pessoa come totalmente altro da sé, giacché l’esplorazione del doppio, per il protagonista, sarà piuttosto una esplorazione di sé (il doppio evidenziando una incrinatura del principio di identità), della propria anima inconciliata, dello scioglimento di qualità dell’uno che difettano all’altro: distinti e uniti in questa interlocuzione sul sé in quanto altro. Il riconoscimento dell’altro, di cui il doppio è il medium, può condurre a un nuovo livello di consapevolezza e di esistenza. Ancora, alle forme duplicanti e duali Ruffilli, in qualsiasi codice si esprima, antepone il soggiacente regime dell’unità dinamica, e quella ambita sfericità del soggetto che comunque urta con la pessoana pluralità degli io.

E per il momento sorvoliamo la questione dell’alterità dell’io in Pessoa (così distante dal rimbaudiano «Je est un autre», che potrebbe anche alludere ad una sublimazione dell’individualità – «semper alius et idem» – nella superiore sfera degli archetipi; e forse più affine al Campana dei Canti Orfici, dove parlava del sé trascorso come di «colui che io ero stato», e ne parlava, appunto, in terza persona), che in Ruffilli tornerà sotterraneamente e per altre vie: «l’io è un vapore che sfugge non appena ci si impegna a contenerlo», quindi rientra nella categoria del mistero. L’alterità di Pessoa («pessoa», che in portoghese è «persona», quindi, se ci rimettiamo al latino, «maschera, personaggio», tuttavia nome solo all’apparenza predestinante nella prospettiva drammatica giocata tra ortonimo ed eteronimo) ha a che fare con il viaggiare senza partire, con l’eteronimia (sintomo profondo di isteria, come Pessoa stesso dichiarava, alter ego, finzione, coesistenza di più voci nel medesimo corpo, identità in crisi e pertanto da invenire), soprattutto con il soggetto dell’esperienza così come figura nelle celebri pagine del Libro dell’inquietudine. Faceva egli dire a Bernardo Soares: «Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta».

Riscriversi. In Fuochi di Lisbona ricorre il sintagma «un’altra vita» (già titolo di una serie di racconti di Ruffilli sull’amore adulto): forse nello spirito del cambiamento e della variazione sul tema (anch’esso un titolo ruffilliano che può rimandare alla variazione nella ripetizione), le opere di Ruffilli si danno sempre tutte insieme, quasi a correlare sensi già comparsi con altri nessi ed elementi di novità da definire. Oltre le autocitazioni da Diario di Normandia, La gioia e il lutto e Affari di cuore, ad esempio, aspetti nodali della poetica e della poesia di Ruffilli, almeno da Diario a Le cose del mondo, sono trasfusi nella linea diegetica incrementandone la vitalità. Perché riscriversi è essere, esserci, essere vivi, assegnare un altro inizio al già stato. Un nuovo inizio insieme a un nuovo sguardo, un rimettere in moto il tempo come dopo una sosta.

Riscriversi allontana l’alea della stasi e come mimesi del dinamismo temporale dell’esistente nel suo divenire altro incorpora i segni di una antecedenza: ritestualizzando, tornano trame non definitivamente smarrite per avere inciso indelebilmente in una maniera di essere. E il dinamismo è il tratto essenziale di una poetica fondata sulla metamorfosi, ovvero «la regola del mondo», che in poesia dava luogo a nuove attinenze e a fulminee disgiunzioni: «È proprio andando che si capisce / qual è il rovesciamento di ogni prospettiva» (Le cose del mondo). Ed è ciò che dà la misura della inesaustività della ricerca di Ruffilli, come egli rende, nei versi e nella prosa, attraverso quella tempestiva conclusività nell’atto di compiersi sulla pagina, conclusività che se restituisce l’impressione di un sistema definitorio, in effetti non fa che rilanciare, dilatandola, la complessità di un enunciato in sospeso per quanto teso alla sintesi.

In viaggio. Nel dire «andando» è esplicito il richiamo al viaggio (in treno nell’opera in versi, in nave come l’Ippolito dell’Isola e il sogno, in aereo come il protagonista di Fuochi di Lisbona), tema che ispira la sezione liminare delle Cose del mondo. «Mistero di ogni partenza e di ogni arrivo», il bisogno e il timore di allontanarsi. Perché il viaggiatore delle Cose del mondo era sintonizzato sul ritorno prima ancora di partire? Forse perché il viaggio implica un raffronto istintivo con il noi di altri tempi nello stesso luogo, e il riscontro non può che essere in perdita. O perché insinua il fattore della casualità, l’inaspettato, l’incertezza di incorrere in qualcosa che potrebbe scombinarci la vita, come accadrà al protagonista di Fuochi di Lisbona. Oppure, nelle forme di Baudelaire, per resistere alla seduzione dell’ultimo viaggio: «Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau, / Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!» (Le voyage).

I viaggiatori ruffilliani valorizzano gli intervalli, il soffermarsi lento che dissolve le ovvietà presunte, il perder tempo per trovare qualcos’altro. Non la conquista di un approdo quindi, ma la ricognizione della propria identità è il vero movente del viaggio, tra il partire e il tornare («Di corsa, inseguendo se stessi, / la propria figura smarrita») con il riconoscimento delle proprie spoglie e delle occasioni mancate («in questo / spreco di sé nel mondo fuggendo, intanto mutando in gara infinita / – intravista e perduta – la vita», ovvero anche Vita), tuttavia mai nell’ottica classica e fosca di una catabasi.

Nello svolgimento narrativo il viaggio è per il protagonista una destabilizzazione dell’immobilità, lo «sforzo per decifrare gli enigmi del mio stare al mondo», verificare il proprio centro, una decostruzione del soggetto intrapresa per mettere alla prova la sua labilità, o per sorprendere una verità che era solo latente. È partire con «una valigia piena d’ombre», e tornare forse con una ombra in più. Del resto, dice Hélder, «la nostra vita è incomprensibile proprio come l’aldilà».

L’occasione del viaggio è il desiderio di scandagliare l’amore di Fernando per Ophélia Queiroz, di colpo spezzato. «Perché – è Pessoa a dirlo –, amandoti, ho fatto con te l’esperienza della improvvisa dismisura. La scoperta che la fame non può essere saziata e tutto resta aperto e senza fine». Viaggiare è «dare orizzonti mobili alla mente», è – Pessoa dice – «essere altro costantemente. Neppure più a se stessi appartenere. Già nell’assenza dell’avere un fine e senza l’ansia mai dell’ottenerlo». Gli fa eco Ruffilli: «scorrere appunto dentro se stessi e dentro il mondo, senza fermarsi. Perché il ristagno è il principio del morire».

Mutatas dicere formas. È acclarato: la forma narrativa di Ruffilli è intrisa di pensiero con frequenti balzi in ambito extradiegetico, e, nei casi in cui è questione dell’ordine delle cose, extraletterario. Si tratta qui di descrivere le forme mutate, meglio, in perenne movimento. Come esemplarmente in Natura morta, anche in Fuochi di Lisbona la metamorfosi, la mutazione di forma che comporta una mutazione di essenza pur nell’inclusione, costituisce il nucleo generatore della vita. Forma che si trascende da un lato, concrezione delle cose dall’altro. Status di continuo mutevole, «risorsa dell’incrocio, forza insuperabile dell’ibrido dentro il fluire della vita». Passaggio dinamico tra forma e flusso, la metamorfosi comporta un cambiamento con implicazioni del nuovo, di un fattore di crescita, e forse anche di un salto qualitativo, comunque ekstatico: l’essere in atto delle cose, fuori dal permanere e quindi oltre la stagnazione della condizione tautologica (in merito rimando al mio Moving life. Avvicinamento a Natura morta di Paolo Ruffilli, Fermo 2019). «Nel paradosso dei contrari sta la vera legge della vita. Si entra uscendo e il vero ingresso, sì, sta nell’uscita».

Nesso della contraddizione. È il fondamento ontologico della poetica di Ruffilli. Luogo di reciproco trapasso degli opposti, che trattiene il contrasto mettendolo in tensione nella coesistenza degli elementi, la compresenza dei poli ossimorici è un fattore onnipervasivo («Nulla è, tutto coesiste», Pessoa diceva). Ogni aspetto dell’essere sorge da una combinazione, dall’interazione dinamica tra poli antitetici, per cui il principio di non contraddizione e del terzo escluso hanno per Ruffilli una consistenza puramente illusoria. Esiste invece un tertium datur, una terza ipotesi che la logica esclude, che potremmo piuttosto definire una relazione di opposizione, un mutuo assimilarsi dei contrari. È la coerenza della trasformazione, per cui qualcosa può, insieme, essere e non essere, immesso com’è nella metamorfosi che degli opposti mantiene la radice comune. L’immoto è il regno della tautologia, dell’identità di ogni cosa a sé stessa. Nella relazione enantiologica, di compresenza paritaria e sinergica degli elementi di opposizione, per cui il mondo dell’esperienza fa il proprio corso per coppie contrastanti ma interconnesse (moto-stasi, vuoto-pieno, alto-profondo, vita-morte, luce-buio, gioia-lutto, libertà-imprigionamento...), la conciliazione dei contrari va cercata nell’essere l’uno condizione di possibilità dell’altro.

Secondo Ruffilli al calco irrigidito «la natura preferisce la mescolanza, l’ibrido, il composito, la trasgressione. Gli uomini sono invece ossessionati dall’omogeneo, dalla regolarità». Il mistero del mondo sta in ciò che si vede e che bisogna attraversare con il paradigma immaginativo – il primo principio, ma che riguarda gli umani, nel senso che siamo noi a doverci impegnare a varcare l’evidenza, mentre lo stato delle cose resta tale con o senza di noi – che si porta dentro l’immagine a sondare la realtà, diceva Ruffilli, «del retroscena» della statica logica dell’essere.

Tornando al punto della contraddizione, della realtà incoerente. Amor et mutatio rerum: la contiguità dei termini della opposizione viene in Fuochi di Lisbona enfatizzata dall’amore al femminile che dà felicità e dolore, la forma alterna dell’amore. L’amore è «l’incastro più assoluto», si leggeva in Affari di cuore, e una terminologia che designi la piena coincidenza degli opposti torna nel romanzo (coppie della discordia concors amoris: «inchiodata-sfuggente», «contenta-inquieta», «salvato-perduto», e l’esemplificazione potrebbe continuare), in cui si disseminano ossimori il cui stridore dialettico traduce, appunto, il carattere promiscuo della realtà. È la pluralità dell’essere ricondotto alla relazionalità ossimorica della varia unitas: «Essendo tutto mobile tutto resta aperto. Essendo tutto cifrato, tutto resta avvolto nel mistero». Molte le antitesi di ciò che trasmuta e che quindi vive morendo e viceversa, ma molte anche le sfumature, le tonalità di transizione (come la sinfonia dei verdi che trascolora sull’acqua: «smeraldo, mela, bottiglia, petrolio, oliva, Sèvres») in cui le antitesi si travestono nelle gradazioni della sera, nei toni della notte, nei colori del buio: «beige e sabbia, ormai, il cielo e il fiume. Ocra, terra di Siena, ruggine, cacao, avana, prugna: le case e la città erano prese in una gamma mescolata di marroni nella polvere d’oro della sera che moriva». E ancora: «Nel bianco si scioglievano i colori. E il bianco, mi diceva Henrique, era la vera tinta di Lisbona. Un bianco impolverato che rifletteva l’ocra, il rosa lento dell’aurora, l’oro meridiano, e poi di seguito il crema, l’aranciato, fino al violetto, al lilla, al blu oltremare».

Convergenza degli elementi primordiali. Risaliamo brevemente alle affinità e alle dissomiglianze tra Fuochi di Lisbona e L’isola e il sogno: il giovane Nievo esordisce nell’elemento acqua che gli rende la sostanza di un paesaggio sentito, quasi fisico, simile a un essere vivente. Il protagonista di Fuochi di Lisbona si presenta sotto il segno dell’aria, della leggerezza. Ippolito naufraga metaforicamente prima (in seguito all’aver sperimentato l’amore assoluto ma infattibile con l’inafferabile e magnetica Palmira) e letteralmente poi, il protagonista di Fuochi – di età più matura rispetto a Ippolito – a partire dalla scoperta della prossimità dell’amore con la mancanza, a sua volta generata dall’amore della pienezza, elabora un’altra visione della vita. Come accadeva a Ippolito, appoggiato alla balaustra della nave in un interludio dove le tonalità del paesaggio e il trascorrere sull’elemento liquido promuovevano una risemantizzazione retrospettiva, anche qui, ma nel viaggio di ritorno, e soprattutto con spirito diverso, hanno luogo lo stream nello specchio di acque e la semantizzazione dei suoi riverberi. Il protagonista di Fuochi: «Immobile sul parapetto. Di fronte all’acqua dai riflessi pieni di ombre, di fronte al cielo sconfinato sopra di me e a quelle rive che sembravano parlare d’altro». Parlando in figura, il fiume in piena infine si placa nello spazio della foce.

È un’alba che fa da crinale. L’amore lo aveva travolto, ma «l’istinto spingeva ormai verso la luce di un’altra mia stagione». Il protagonista si ritrova proprio quando «ormai era perduto». E ciò potrebbe valere in generale in relazione al modus poetandi di Ruffilli: il secondo nome, «perduto», sembra trattenere in sé, nell’opposizione, un nesso con il primo, «ritrovato», che lo prefigura stabilendo un vincolo necessario tra i due termini. È lo stilema ruffilliano che sancisce l’unità del disuguale, l’origine condivisa di una apparente discordanza in un dettato deautomatizzato, progressivo-regressivo, fattivamente incongruente, a stilare la continuità, la diacronia nella simultaneità.

«Il dolore mi stava facendo percepire le cose con vivezza nuova. Sentivo di appartenere ancor di più alla vita», d’accordo con Pessoa e Hélder circa i pensieri negativi sull’inutilità del mondo «che facevano ammalare le persone e fermavano il motore della vita». Quanto al soggetto innamorato e deluso, si accorge che questo amore è meglio averlo perso dal non averlo mai conosciuto. In fondo – con Pessoa – «niente dura, mai, per sempre. E niente, per sempre, mai, finisce».

Lungo la narrazione gli archetipi cosmologici incarnano un ruolo o rivolgono dei segnali ai personaggi, e in Ruffilli rimandano esclusivamente a una dimensione vitale. Il protagonista fa il suo esordio nel regno delle nuvole e dell’aria (Nuvole, già titolo di un’opera in versi di Ruffilli con immagini di Fulvio Roiter), quindi nella leggerezza, nella levità (per alcuni versi simile al galleggiamento di Ippolito sulla nave verso l’isola). In questo inizio il medium è il cielo. Lo stesso che nelle ultime pagine favorirà un trascinamento di pensieri pervenuti a un nuovo stadio di consapevolezza, fluttuando nel processo resiliente senza giungere a una conclusione definita, «come la coscienza intermittente della vita».

L’ampia foce del Tago vede la cessazione del fluire, dell’acqua in movimento e la morte ad Occidente dell’Europa. C’è l’idea della foce con le sue acque di transizione – di nuovo, mescolanza e unione del diverso –, l’indistinzione di un continuo finire che non è finire, quando, nell’inerzia delle acque della foce, senza scalfiture di corrente o increspature di onde, il fiume cessa di essere fiume e il mare non può ancora chiamarsi mare per via di quella «linea invisibile che separa il fiume dall’oceano mare». Lisbona non si limita a fare da sfondo o da struttura topologica che emette una proliferazione di significati. Città «anfibia», è situata tra una terra che diviene fuoco e il dominio dell’acqua, nel gioco dei riflessi, nell’«impero della luce che è rifratta». La sua luce è uno «specchio ustorio» sconfinato che satura ogni vuoto, ogni mancanza, ogni fenditura. Versicolori fasci di luce che si intrecciano in un prisma prezioso, scomponendosi e facendo risaltare per risonanza e riverbero i loro «reflets réciproques», avrebbe detto Mallarmé.

In «Le navi del Tago», penultimo capitolo, così come nell’Isola e il sogno, l’elemento liquido innesca il pensiero e la riflessione sul senso o nonsenso del tutto. Ruolo qui assolto dal fiume con i suoi colori nella rinascita del giorno. Guardare il Tago «fino a scordarsi di guardare», «sentire intanto l’universo, annegarci dentro». E Pessoa: «E provare che tutto aveva anche un altro senso, anche l’avere un senso». Guardare gli effetti cangianti dell’acqua, il suo scintillio, gli effetti luministici sulla superficie liquida, come una tela dalle tinte incompiute, dalle sensuali dissolvenze cromatiche: è la stessa ed è altra, si trasforma restando lì presente. «Non ci si poteva opporre allo scorrere dell’acqua», cioè della vita (quindi non si poteva resistere a Vita), che «pretendeva che si prendesse parte». Il fiume si versava nel mare (ontologia della foce, come raffigurazione di un passaggio temporale e del gettarsi, e perdersi, in un altro corpo), il passato e la forma alterna dell’amore galleggiavano con la corrente. L’amore – la gioia – è contiguo al dolore, al lutto (nella nota diade ruffilliana), così come il nuovo e l’anteriore sono incorporati. L’acqua ha a che fare con il tempo ma anche con l’amore, con la secrezione, con «l’antro muschioso», umido, oscuro.

All’elemento fuoco si rifà il titolo dell’opera, esplicato molto in là nel racconto: «Dalla finestra, il Tago era un magma incandescente e a ondate si espandeva nella stanza. Batteva il suo duro suono dentro la fusione del metallo. Pulsava e ribolliva nel tramonto. I fuochi di Lisbona. Le tende, le pareti, i cuscini, le lenzuola, i corpi di noi due amanti... Carminio, scarlatto, vermiglio, porpora, amaranto. Non era il rosso la tinta dell’amore?». È la passione amorosa associata ai riverberi lussureggianti del tramonto, fin dalle prime pagine dell’opera il fuoco è passione nell’ora del «rosso sangue e oro che l’occhio non riusciva a sostenere», e che somigliava alla insostenibile pienezza della passione d’amore, la «dismisura» di cui parlava Pessoa. E la stanza dell’amore al tramonto era invasa da un sole che «divampava sulle case facendone un vasto specchio ustorio». Le lacerazioni che scandiscono la nostra esistenza altro non sono che «il segno della luce, non del buio», benché le lezioni della vita, il sentimento di distruzione che ha facoltà risanatrici, vengano assimilati quando sono ormai inutilizzabili.

«La terra è fatta di cielo», si legge nei versi di un Pessoa ortonimo. Che nelle righe corsivizzate del romanzo parla di unità degli elementi primordiali: «ciò che scorre deve per forza, intanto, consolidarsi. Essere fuoco, e, insieme, terra». Così per Ruffilli, per il quale, come ben sappiamo, all’orizzonte della discordanza c’è sempre un’origine comune. Come la Bocca dell’Inferno è simile all’amore, anfratto desiderabile e travolgente «per quel suo gorgo vorticoso che mescolava gli elementi e cancellava i confini tra terra, acqua e cielo», il «cielo del mistero» di Nuvole. E Lisbona è «un mucchio di braci ardenti nel nero mescolato di terra e cielo».

E accennando ai pendolari, nell’intreccio delle voci del protagonista e di Pessoa: «Era mare la loro stessa terra: Voce di terra che anela al mare». C’è coincidenza e non, come in Proust, inversione degli elementi. Ma le divergenze non sono poi così nette: se in Proust, specie per mano di Elstir, abbiamo una alchimia della materia, e a livello di testo, un passaggio ecfrastico in parole altre, la metamorfosi in Ruffilli è congiunzione degli elementi in forza del loro stesso trasmutare. Entrambi in fondo decostruiscono la realtà nel mutuo condizionamento degli elementi, nel trapasso o nella emulsione di aspetti eterogenei della realtà esterna. Perché nulla è prigioniero di una convenzione. Il principio di Rufilli è di non demarcazione, e a questo punto del libro ne è l’emblema la foce del Tago.

Il protagonista deve la scoperta della vera Lisbona al suo amico Henrique: terra satura di luci, aromi, colori, sfumature, terra incantata che fa innamorare e solleva i dubbi degli amanti e gli enigmi dell’esistenza. Lisbona è soprattutto terra terminale, ai bordi del mondo, città «dal corpo femminile», tentacolare per la sua forza di attrazione, «terrazzo sull’orlo dell’abisso: un bastione per la vita, a reggerla e a salvarla dal vuoto con il quale confinava». «Diga – Tabucchi ribadiva nella Nota – costruita nel tempo a reggere la deiezione a occidente dell’Europa verso l’Atlantico e l’ignoto». Quindi, una terra tra splendore e nihilitas, anch’essa in equilibrio ossimorico, dove il contrasto sembra postillare l’interagenza delle differenze delle differenze. È terra come la vita che pretende di essere vissuta qui, ora e fino alla fine, «anche se non serve a niente. Anche se il tempo sempre cancella tutto con il suo passo indifferente», e siamo all’explicit. «Lisboa», «nome d’incanto» (Battiato), che fin dal suono della sua lingua trasmette lo spessore dell’eros. Lisbona, città donna oltre la quale è voragine verso il fondo dell’ultimo orizzonte, come nell’amore per via del «salto nel vuoto che esso pretende».

Amare. È un fatto, l’amore si fa (già in Affari di cuore). Vita ripeteva al protagonista che bisognava concentrarsi su quel fatto evitando di fantasticarvi. È un fatto che implica l’assorbimento dell’amato/a. Che provoca la nostalgia del presente, «nostalgia di quello che, pur nel possederlo, sentivo comunque inaccessibile avendolo raggiunto», qualcosa di più di una nostalgia della pienezza del presente, cioè della percezione del suo inesorabile passare. È il tipicamente ruffilliano sfuggire della cosa non appena si crede di averla conseguita. Pessoa, pensando a Ophélia: «più e più si fa l’amore e più si resta invece disperati. Perché si fa esperienza di una felicità talmente grande eppure così breve, che si scatena poi la sofferenza del desiderio, di nuovo in astinenza». Tuttavia, altrove: «Non l’amore, ma i suoi dintorni valgono la pena... La sublimazione dell’amore illumina i suoi fenomeni con maggiore chiarezza della stessa esperienza. [...]. Possedere significa essere posseduto e dunque perdersi. Soltanto l’idea raggiunge, senza sciuparsi, la conoscenza della realtà». Viceversa, per Ruffilli dai contrari sorge l’unità dell’amore. In Fuochi di Lisbona l’amato/a gode dell’essere possedente e insieme posseduto, compreso e compenetrato in sé stesso, due in uno e uno in due. Carnale e universale, femminile e maschile, esperienziale e sublimato in parola, nodo inscindibile di yin e di yang, di spinte opposte e complementari, come nel pensiero orientale. Se per Lucrezio gli amanti cercano invano di congiungersi e nella impossibilità del pieno appagamento sta il loro tormento, qui si verifica piuttosto il tormento della gioia, lo svuotamento nella e della pienezza. E molto orientale è questo sguardo che gode del mondo, del corpo, dell’altro da sé nel momento stesso in cui ne percepisce la caducità e l’impermanenza.

La dicotomia tra eros come affare di testa o affare di cuore finisce per sciogliersi: come in Affari di cuore, l’eros dal cuore sale alla testa nel delirio sentimentale che progredisce – o regredisce – in ossessione mentale segnando i vari stadi del discorso amoroso. Il desiderio raggiunge una maggiore intensità nell’assenza. Ma assenza è il calco, il vuoto come presupposto del pieno, per questo Ruffilli parla del «richiamo dell’assenza», del «risucchio del vuoto». Amore è un viaggio al termine del giorno, verso il sole che incendia il paesaggio, e che procura un senso di irretimento, di malattia, in quanto «sogno dell’unione più totale», l’aspirazione degli amanti di penetrare i segreti degli amati.

Essendo il corpo voluttà e malattia, nonché sede della morte, c’è un legame fisiologico, e non solo emotivo, nelle cose dell’amore, sicché Ruffilli in alcuni punti sembra interpretare il ruolo del dottor Behrens, che nello Zauberberg, coerentemente con la propria ideologia medica e chimica, tutto riconduceva alla dimensione organica. Un dottor Behrens ribaltato, le cui diagnosi ineriscono alla vita, alla esaltazione del corpo e non alla sua corruzione: «è l’eccitamento che accelera di colpo la circolazione, rende lo sguardo sfavillante, fa aumentare il colorito al viso. E il cervello, così sollecitato dall’afflusso di altro sangue, è stimolato dalla mente».

Il primo sintomo della saudade, quel sentire malinconico che si caratterizza per la sua indefinibilità, quell’intrico di nostalgia, di rimpianto e di desiderio struggenti per ciò che non si potrà mai possedere che prende a Lisbona, è «uno stato di euforia, come allo scoppio di una febbre». Poi la sintomatologia dell’amore, a livello fisiologico, una «attività nell’area cerebrale del nucleo ventrale segmentale: surplus di dopamina. Scossa voltaica lungo il plesso cervicale, brachiale, spinale, lombosacrale»; «saliva che si univa alla saliva. Quanta ne riversavano i condotti delle guance e del palato: zuccheri, muco, siero, cellule vive e cellule morte. [...]. Se era col pH la soluzione elettrochimica di tutto, che fosse pure. Combinazione più riuscita non si poteva immaginare». E le conseguenze, quelle organiche, dell’amore: «bruciore, arrossamento, flogosi, eritema, vaginite».

Tradire. Portarsi oltre gli schemi costituiti per «consegnarsi interi alla propria libertà», «violare il vincolo per affrancarsi». E Hélder: «la salvezza non consiste affatto nella fedeltà alle forme [...], quanto piuttosto nel sapersene appunto liberare». In fondo, tradirle (assonante con «tradurle», condurle al di là, quindi portarsene fuori). Il discorso esorbita dalla infedeltà amorosa che non è scontato che si consumi solo con l’atto sessuale. Tràdere è consegnare, come consegnato, tradito da Giuda. Al contrario, nella Gloria di Giuseppe Berto, ad esempio, il gesto di Giuda non è un tradimento ma un gesto d’amore che consente il realizzarsi del disegno divino, del destino del figlio di Dio. Senza il tradimento di Giuda non ci sarebbe stata la crocifissione quale antefatto della gloria di Dio.

«Tradire» non vuol sempre dire tenere l’altro al di fuori della verità. È inoltre una maniera di acquisire la consapevolezza della difficile responsabilità di fronte a libertà che possono anche degradarsi in infelicità o in sofferenza. Come in Madame Bovary e Anna Karenina, che attraverso il tradimento d’amore cercavano, con gli esiti che sappiamo, la loro realizzazione senza piegarsi a condizioni e a convenzioni. E per l’amante di Fuochi di Lisbona, la risposta alla domanda su chi siamo, se siamo attori di parti già scritte, o copie di copie, è che il vero segreto della vita è «essere copia e, insieme, libero arbitrio. Ritrovarsi in una parte obbligata e trasgredirla».

Mistero. «Indizi vaghi e tracce che si perdono nel punto stesso in cui stanno lì lì per affiorare». È «la verità / che si apre / e si richiude sull’ignoto» (La gioia e il lutto). Mistero è la vita che risorge dal vuoto, è vacuità da colmare, oscurità da illuminare. È mistero della trasformazione, per cui l’umano è parte di ciò che è accaduto nella storia. L’ambiguità è la forza e il principio della vita, il suo paradossale affidamento. Quanto più si trova e si cerca di dargli un senso, tanto più dilagano le tenebre e l’incertezza comporta l’ampliamento di una inchiesta che dura infinita.

Il mistero scolorisce nelle false sembianze insite nell’evidenza, le cui verità sono solo ombre, «tutto il mondo visibile è spettro e simbolo, la vita che conosciamo tramite i sensi è un’illusione. L’iniziazione è il graduale dissolversi dell’illusione. E la ragione per cui non c’è significato che non sia simbolico risiede proprio nel fatto che l’iniziazione non è pura conoscenza, ma è anche vita. E uno deve perciò da sé scoprire quel che i simboli gli mostrano, perché così vivrà la loro vita senza limitarsi ad imparare le parole con cui ci sono rivelati» (assunto metanarrativo, che rimanda a una tesi sviluppata in Appunti per una ipotesi di poetica, a conclusione di Natura morta). Tutto passa e si trasforma e resta il mistero, incarnato qui in una serie di ossimori («realtà è apparenza», «vivente morte», «tenebra visibile», e anche questo sarebbe un elenco infinito). Mistero che balena («La schiuma che metteva in ombra di continuo il suo biancore luccicante e già ricompariva nel momento in cui spariva») solo per via di immaginazione, niente di più estraneo alla fantasticheria e alla immaginosità gratuite e svincolate, alla creazione mentale interiore.

E venendo infine al paradigma dell’immaginazione, Ruffilli, com’è noto, si situa nell’asse Leopardi-Pessoa-Einstein. Si allinea al fingersi di Leopardi, dove l’immaginazione arriva a dare forma, e nella finitezza si ha accesso all’infinito. Al fingitore Pessoa, la cui finzione è, per così dire, attiva, fattiva – oltre lo standard della finzione letteraria dell’istituzione di doppi fittizi – in quanto tramite la costruzione eteronimica crea un regno della finzione all’interno del mondo reale e storico, mentre tenta il conseguimento dell’autenticità del sentire poetico. Quindi il detto celebre «O poeta è um fingidor» non allude a una simulazione o a un mascheramento. Come scrive in Pagine di estetica, «certi stati d’animo, pensati e non sentiti, sentiti immaginativamente e così vissuti, tenderanno a definire per lui [il poeta] una persona fittizia che li senta sinceramente». E con Einstein, per il quale «l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione circonda il mondo». E ancora: «la logica ti porterà da A a B, l’immaginazione ti porterà ovunque». L’immaginazione darà il senso «del noto sconosciuto» perché travalica il diaframma edificato dall’evidenza (si veda, in proposito, Pentacordo per Paolo Ruffilli, a cura di E. Brizio e M. Veronesi, Imola 2012).

Un punto nel Libro dell’inquietudine, che fonde il modello dell’immaginazione con il tema del viaggio: «È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo, se li creo esistono, se esistono li vedo come vedo gli altri [...]. La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo».

Riassunzione in uno. Gli elementi primordiali risospingono il lettore nell’anarchia primaria, origine tuttavia del tempo e della vita: la possibile radice di «Chaos», «ka», sembra evocare l’idea di cavità, vuoto, voragine, ma anche di primigenia massa informe che cela dentro di sé, in germe, tutte le forme. Così, per Ruffilli, anche i generi letterari possono essere mescidati, come riflesso della disuguale armonia che regola il mondo. E contestuali, una ibridazione e incessante contaminazione dei moduli formali verso l’assorbimento della discontinuità: l’identità di un genere partecipa dell’altro senza discrimine dal profilo dell’essenza, e ogni sua opera, lungi dall’essere un sistema chiuso, è la mise en texte della metamorfosi come motore del mondo reificata nella sintesi delle diverse arti. Insomma, non siamo di fronte a un ludus ma a un’apertura al mistero e all’oscuro balenare dell’alterità.

Anche il genere è l’ambito della trasformazione e della mutevolezza rispetto alla purezza del canone (indugio nell’immobile) e dei caratteri normativo e prescrittivo della visione tradizionale (dogmatica, inibente la libertà). Ne è prova lo stile denso di questo romanzo difficilmente rubricabile, fatto di poesia (ritmicità della prosa, ritmo dei giochi d’eco e dei richiami del mistero sfuggente), di pittura (frequenti trascolorazioni, toni improntati alla sintonia tra materia pittorica e materia musicale, giacché la musica è il moto che scorre) in un sotteso registro musicale. «Trasferisco le tonalità della poesia nelle modalità della narrativa. Anche raccontando, nella misura breve o lunga, per me trainante è la musica. Mi lascio trascinare dal ritmo. La mia prosa è poesia», Ruffilli dichiarava in una intervista.

Della componente musicale si fa espressamente carico la voce di Amália Rodrigues, la «regina del fado» – fatum – e della struggente nostalgia, che con saudade interpreta il dolore intrinseco all’amore («Amor ciúme / Cinzas e lume / Dor e pecado / Tudo isto existe / Tudo isto é triste / Tudo isto é fado»). Fuochi di Lisbona è redatto in una prosa ritmica con rime inattese e ovviamente irregolari e parole assonanti, che rendono una intrinseca musicalità della scrittura, corrispettivo in prosa dell’inflessione versale. Benché in un genere codificato come «romanzo», strati della prosa di Ruffilli richiamano certa sua versificazione quasi dell’Ungaretti «uomo di pena», che si unisce a tratti, e paradossalmente – per fondere due referenti culturali spesso addotti a proposito dell’autore –, con una cantabilità quasi settecentesca, quasi chiabreresca e arcadica, ariosa, dalla parvenza svagata e dall’eleganza severa, quasi esistenzialisticamente, assurdamente mondana. Qui la prosa rimata e assonanzata è spesso interrotta da quell’epilogarsi fulmineo caratteristico del verso ruffilliano, che ha un po’ dell’aforistico, come a racchiudere il senso di una – imprendibile – verità sul mondo.

Quanto alla contaminazione con altri generi e canoni in Ruffilli, ne parla Tabucchi (con un richiamo a Luigi Baldacci che, a proposito di Ruffilli, discettava di scrittura lieve, le cui parole sembrano note in una partitura musicale) nella Nota di lettura datata 2012, quando Fuochi di Lisbona sembrava fosse sul punto di essere inviato all’editore. Ruffilli, tuttavia, si prese altri dodici anni di tempo per raccontare il suo sogno di Lisbona di vent’anni prima.



Elisabetta Brizio



sabato 12 aprile 2025

"Gettati nel mondo, gettati nel tempo. 'Luci da oriente' di Alessio Vailati" - di Elisabetta Brizio




La luce è di per sé pregna di pensiero e di epifania, «Luce intellettüal, piena d’amore», dice Dante. InLuci da Oriente Alessio Vailati le dà risalto già dall’esergo da Mario Luzi: «Si è qui, come si deve, inuna parte, / in un punto del tempo, in una stanza, / nella luce, nel divenire eterno». Nell’ossimoro del «divenire eterno» il punctum temporis del presente che fugge si discioglie in una luce più alta e limpida – quasi nella montaliana «eternità d’istante», o della luziana, appunto, «immensità dell’attimo». È il sentimento di qualcosa di impenetrabile, e tuttavia resta lo stridore tra il «divenire eterno» e l’essere situati «in un punto del tempo», in quel nonsenso fondamentale che, in quanto «traccia troppo labile», vanamente Vailati tenta di fermare in «una parola fra le tante / disperse, scomparse». Ed è la domanda sul senso («snidare nel grave / torpore dei tempi un segnale») a precludere ogni declinazione orfica dei nomi, non una domanda che contenga in sé il proprio fine, ma che dilazioni l’eco di sé, quasi una domanda vissuta, meditata, interrogata, possibilmente sostantiva, e non oltrepassata da parole definitorie: sfondo e orma quasi esclusiva della sua poetica – la così detta «idea del dire» – instillata nei versi. E quest’opera non fa eccezione. Luci da Oriente (Nulla Die, Enna 2022, Prefazione di S. Raffo) è un diario lirico scandito in quattro sezioni: «Una vita ordinaria», la sezione più folta, «Il labirinto», «Eternamente grande, infinitamente piccolo», e l’eponima «Luci da Oriente».

Il testo esordiale dà la misura della materia lirica di Vailati, la vita, la contingenza come sola necessità. E la dà al primissimo verso, senza prendere tempo. «Ci siamo cascati dentro / con il corpo e con il cuore, dentro / lo spazio finito, nel tempo». Ci siamo trovati ad essere senza aver scelto di farlo, l’esistenza ci viene imposta indipendentemente dal nostro volere. L’essere geworfen nel mondo, in quel labirinto che è motivo seminale e nucleo di polivalenza nella poetica di Vailati (e in merito rinvio a https://www.bibliomanie.it/?p=5977 ), ci caratterizza come identità monadiche senza garanzie esterne, costretti alla responsabilità di scelta che ricade sull’essere al mondo nell’abbandono e senza tutela né direzione («Tu e io siamo in un naufragio / [...] senza una rotta, immersi nella notte»), né direttive provvidenziali («Dicono che siamo soffio divino, / creatura perfetta nella imperfezione. / Ci credi?»). È la condizione dell’essere esposti, priva sia di significatività sia della facoltà di pensarsi come soggetti progettanti. Gettati nel mondo, gettati nel tempo, «essere alieni / persino al proprio agire», assegnati alla morte, o, che fa lo stesso, alla vita come mortalità intrascendibile.

D’altra parte, è assente in questi versi una qualche tensione oggettuale, l’oggettivarsi dell’occasione biografica o di realtà imbrigliate in una necessità stringente. Al di là di una oggettività naturalistica e di riferimenti atmosferici che, insieme alla congesta realtà metropolitana, costellano l’opera con spostamenti di senso («nebbia», «labirinto», ad esempio), sembra venir meno il tradizionale oggetto incarnazione di conflitti emotivi, o deputato a risospingere nell’ora il sostrato della memoria. Non c’è oggetto rivelatore: i margini della realtà, il sentimento di imprigionamento vengono espressamente dichiarati, asseriti, attestati e non assorbiti nell’oggetto, sicché l’inchiesta è tutta di pertinenza del «noi» in quanto esposti, soli e senza difese, a sostenere il peso del mondo in un dedalo esistenziale. Ad abitare il labirinto, che in Luci da Oriente non sempre obbedisce ai modelli vulgati e che vuol dire di volta in volta chiusura e limite, teatro di passaggi inestricabili, sfera nebulosa del passato, disorientarsi della conoscenza, realtà dispersa nei sogni dove le cause possono anche essere successive agli effetti, inconscio e la sua lingua che parla nella notte, cortocircuiti di senso. Nonché complessità dedalea della città allucinata e parossisticamente vociferante.

Questo passaggio ad ostacoli, la vita, è sostenuto da un dettato di coscienza tutt’uno con il paradigma colloquiale quale codice unificante: astenendosi dalla pretesa di indicare la soglia del trascendente, Vailati finisce per profilare l’inverso esatto del nichilismo e dell’estetica del vuoto. Perché scrivere il nichilismo – quando non assunto come punto di partenza ma come fine – suonerebbe come pretestuoso, una scappatoia, un rituale comunque sorpassato. O, come diceva Leibniz, «il nulla è più semplice e più facile che [postulare] qualche cosa». L’esistenza è costitutivamente disarmonica, ma non da giustificare il non volere, la trasgressione anche verbale, la tentazione nichilista della rinuncia e dell’oblio. Ci sono valori, se pure molto privati e molto precari, oltre la radicalizzazione nichilista e l’adeguamento alla tragicità mondana. E soprattutto, «siamo fatti per vivere». Detto altrimenti, e con più inerenza al testo, Vailati non oltraggia né sublima la vita e resta fedele alla propria memoria da proteggere, ad atmosfere, drammi, felicità esistite, all’evocazione di zone del passato («Te lo ricordi il mare»...), a un ricordare – o all’aver perso l’occasione per farlo – che interagisce con la trama del sé nell’esperienza presente e non con una immaginazione irridente scomposta. In Luci da Oriente la visione della vita come sottomissione al tempo e la decodifica memoriale (ovvero, in termini temporali, l’attenzione al tempo del soggetto, al proprio principio, al passato individuale, non la divinizzazione del passato irreversibile) non sono elaborazioni asincrone. E per certi aspetti divergono dall’evolversi della coscienza del protagonista della recente opera narrativa di Vailati, Ninfa alla selva (2024), storia di una rigenerazione a partire dalla necessità del caso, dalla casualità dell’incontro «fortuito e inevitabile», nella endiadi proustiana, che innesca l’imperativo della ricostruzione del senso sommerso dell’accaduto. L’artista ormai senza più ispirazione ritroverà il filo del suo processo creativo, insieme al contatto con il sé identitario, in seguito a uno scandaglio dei suoi giorni a ritroso nel tempo – torna l’idea del labirinto, e qui il filo è mentale, morale, come un comportamento, qualcosa che congiunga l’ora al già stato. Comprenderà, nel dipinto ritrovato, la trasmutazione della donna amata e perduta, «l’eternizzazione dell’ideale che in quel momento incarnava. Il tormento, l’estasi, il culmine di un orgasmo spinto al parossismo fino a dissolvere il tempo e annientare un’esistenza».

Per dichiarazione dell’autore, la vita non è mistero da trasfigurare, ma vincolo da condividere misurandosi con il cedimento immanentista, il naufragio, stigma ed emblema dell’esistenza individuale. Ora, «naufragio», così come «nebbia» che toglie l’orientamento, e quindi «smarrimento», sono allegorie significative, residui della Geworfenheit. Non siamo tuttavia sulla linea del naufragio ungarettiano, dal quale il poeta riemerge «alla luce coi suoi canti», Vailati insomma non sembra credere troppo nel valore eternante della poesia, o dell’arte, se ci rimettiamo all’explicit di Ninfa alla selva: «Mi domandai se gli artisti vengano davvero salvati dalla loro arte», arte che, tuttavia, in uno dei primi capitoli del romanzo, veniva definita come qualcosa «senza spazio e senza tempo, un’idea assoluta di Bellezza, slegata dai vincoli della finitezza e della caducità, proiettata costantemente verso l’Infinito e l’Eternità».

Naufragio è anche naufragio dell’opera, ma soprattutto della sovranità del soggetto su di sé. Finché non ci si imbatte nella figura predestinata a promuovere il processo di individuazione: un «tu» non ritornante alla prima persona singolare, con cui spartire il peso della temporalità inscrutabile (d’ora in avanti il linguaggio cessa di essere un monologo: «E confesso che è questa sintonia / di voci l’amore») e, senza le implicazioni delle filosofie dell’esistenza, il peso della problematicità della vita. Così come il confronto con la morte in vita, quel routinario inanellarsi di giorni vissuti inconsapevolmente. E con le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo del qui ed ora e del qui per il tramite del non ora, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia, e di questa poesia.

Alterità non indefinita, non convenzione lirica dove si accampa un interlocutore generico e impersonale talora deificante, mai pretesto per un dialogo dell’autore con sé stesso, il «tu» di Luci da Oriente, nel suo temporalizzarsi, è diverso dal «tu» di Sulla via del labirinto (L’arcolaio 2010, Prefazione di A. Resuli). Identificato e divenuto rigorosamente allocutorio, è ora rivolto all’essere non più asintotico ma che ha un posto privilegiato nel suo tempo: alla sua donna. L’interlocutrice interferisce con le competenze del soggetto dell’enunciazione, così indotto all’estroversione, a portarsi fuori dall’alveo liturgico e anacoretico del cliché che vede l’io sfumare in immagine nebulosa di uno spazio di senso negato all’esistere, e assegnato all’esclusione e alla negatività storica. Il «tu» è qui presente e legato a contingenze biografiche e ad esigenze dialogiche. Ed è variabile all’interno del testo, essendo persona viva e amata che vanifica il detto per cui in due si può essere più soli che da soli – prova ne è l’immediato insediamento del «noi». In questo canzoniere le cose vanno altrimenti («insieme noi saremo forti», «una resistenza / ci nasce dentro, in mezzo a tanta giungla / e resistiamo...»), e i versi disegnano una tensione condivisa al fine di «salvarsi dall’inconsistenza». Perché la donna non è una seconda persona singolare trapiantata nei versi per esercitare vaghe facoltà soteriche (se il suo sorriso «non concede / un attimo di tregua dalla morte»; e in Piccolo canzoniere privato, del 2018: «non disperdere / i miei anni nella notte») o per promuovere la consapevolezza autoriale del soggetto della parola, o al contrario per fargli da schermo all’esclusione totale. E Vailati non esita ad autoschernirsi, citandosi nel suo romanzo. Il punto: «Recita una poesia, non ricordo chi ne sia l’autore, credo un poetucolo dei nostri giorni: Forse è così: si va per via di inerzia / a colmare per sempre una mancanza». In Luci da Oriente chi parla è il «tu», che usa la parola «inerzia», e non può esserci azione salvifica all’orizzonte della parola «inerzia».

I versi di Luci da Oriente sono inscritti in un contesto privato e discosto dai paragrafi della condivisione su larga scala, soprattutto nella prima parte, legata agli interrogativi e alle ansie della interlocutrice, senhal senza nome ma non recondito, non criptico. Da questo profilo possiamo considerare l’opera come seguito di Piccolo canzoniere privato, che più marcatamente raccoglie il dato biografico: qui dalle riflessioni di Dispersioni si passa a Luoghi, memorie e altri versi (incontro con la sua donna, i primi viaggi, la Scozia, la Norvegia), che funge da collegamento con la più cospicua terza parte, Lampo di vita nascente, che raduna i versi scritti in quello che Agostino avrebbe chiamato «presente del futuro», ovvero l’attesa, in questa fattispecie, l’attesa della nascita della figlia, fino ai suoi primi mesi di vita. E ricollegandomi con l’inizio, questa circostanza richiama Dostoevskij, l’adolescente Dolgorukij: non esistono solo la gettatezza, l’estraneità del vivente, la necessità, c’è anche la fondatezza, in questo caso la nascita per amore, un senso e un progetto l’hanno preceduta – così come l’ispirazione, si legge nelle battute conclusive di Ninfa alla selva, nasce dal dolore, ma ci sono anche «la gioia, la paura, la passione, l’amore, la Bellezza».

Tuttavia, ogni nascita genera altra incertezza, come l’angoscia al pensiero dello sgretolamento del nucleo familiare che acutizza il senso della fugacità della nostra vita mortale senza idea di oltrevita, per quanto decisa fosse la resistenza allo stato delle cose. Ricorre, esplicita o inespressa, la domanda sulle maglie del tempo – labirinticamente – vissuto tra la nascita e la morte, e sulla via di uscita, che non sempre è in noi. E ci sentiamo vacillare, con Vailati, nella cognizione o meno del nostro universo personale consumato tra l’entrata e l’uscita («Non resterà che poco / [...] della storia / dei nostri giorni. [...] / Saranno ormai spenti / i miei convincimenti / i tuoi fraintendimenti»). Ciò sembra dar luogo a una – non disfunzionale – nostalgia del tempo presente, nel presentimento del suo passare, e che presto smetta di essere presente: sorta di rovesciamento del cogli l’attimo verso un adesso intemporale, e il cui effetto è la svalutazione della parte corrente del tempo. Rimpiangere preventivamente la nostalgia di un presente non vissuto e senza memoria, con Borges: «Sento già la nostalgia di quel momento in cui sentirò la nostalgia di questo momento», Atlante (1984); ma già in Nostalgia del presente (1981) la non convergenza tra desiderio e realtà (mancanza nella presenza), o una convergenza situata nel divergere del tempo e dello spazio, negano il presente e il futuro.

Ma amare è anche amare contro il fugit invida aetas. E la poesia che funzione avrebbe in questa contingenza? Inoltre, la ragion poetica e una vita trasfusa in fonemi possono mettersi in connessione? Può esserci complementarietà tra i due paradigmi? Poesia, con Proust, è «pour ne pas oublier», giacché: «Come bruma l’oblio scancella i volti, i gesti che furono adorati / nel divino ‘una volta’» (Poèmes, trad. it. di F. Fortini). E gli fa eco Derrida: «salvare nel ricordo quella cosa che insieme si espone alla morte e si protegge» (Che cos’è la poesia?, 1988, trad. it. di M. Ferraris). In generale, per Vailati la poesia non è sufficiente a sé se scorporata dalla vita (e Luzi: «Tu cantami qualcosa pari alla vita»). Attenendosi ai margini della vita, che è un incontro tra corpi, la poesia si allontana dalla sua genetica innaturalezza, o dal suo statutario «scarto dalla norma».

Tornando al punto. L’essere è essere geworfen cui resistere. Il lirismo di Vailati è obiettivo e ben poco concede al modulo ermetizzante e all’obscurisme di narrazioni dell’asintotico invisibile-indicibile, così come a una scoscesa modalità analogica o a uno straniamento mimetico che surclassino le forme di designazione dell’increspatura. Ed è la luce che tenta di linearizzare l’alone psicologico incluso nell’oscurità della poesia. E se c’è comunque pathos della parola, non c’è gerarchia nel materiale linguistico. Consapevole come Vailati è, credo, che il nome che vorrebbe fermare l’ineffabilità, o per manipolazione semantica nominare, con la pretesa di denominare, il baluginare del mistero, soccomba alla stessa transitorietà dei segni del suo codice quotidiano, reificato nella letteralità della parola ordinaria stretta ai rapporti affettivi che la ispirano sfuggendo la deriva retorica. E forse il nome medianico – derivante dal quasi sacro alfabeto dell’umano – potrebbe rivelarsi più labile del nome inequivoco non destituito di referenza, per il fondamentale vuoto sottostante al primo. Poesia è potenzialità espressiva senza uscite dal mondo, un processo di scrittura che ridisegna una microstoria non enfatica e quindi estranea agli idoli indolori scissi dalla vita e talora sorpresi dalla parola di tono alto che deflagra o che scolpisce o drammatizza la cosa. Vailati nega l’attribuzione del focus poetico ai non detti e agli echi e agli aneliti di infinito – e specularmente, siamo al naufragio linguistico del nome immortale. L’investimento degli strumenti formali verso l’uso linguistico della convenzione può alludere al fatto che il nome della poesia, qui esplicito e disteso, non è più, se mai lo fosse stato, lo strumento conoscitivo deputato allo scioglimento dello iato tra l’essere e il dire.

Come conciliare il diffondersi del fattore caotico del labirinto metropolitano e del Nachreden, nel suo vuoto e impersonale parafrasare il nulla, o nella superficialità della Gerede incurante del nesso originario tra linguaggio ed esistenza, con un verseggiare che rischia esiti immusicali – in quanto nominazione semantica e referenziale – mentre accampa una forte domanda di senso? Oltrepassando la prospettiva di modi linguistici dell’esprimere l’inconosciuto o la tipologia versale che vede il nome fondato su un’assenza, su un’eccedenza di vuoto, su un’ombra, su una opacità ermeneutica. Se Vailati mira all’essenzialità del verso (dove l’omissione si guarda bene dall’essere più essenziale di ciò che viene espresso), scarta tuttavia l’ipotesi di una essenzialità del materiale lirico per illuminazione o per frizione straniante, del dominio dell’analogico sul logico, il che ha come esito successivo una dilatazione del potenziale terminologico oltre il verbo dell’immaginazione, in sintonia con il rimettersi al carattere dato della nostra esistenza, a quella «morsa della realtà di tutti i giorni» di cui si parla nella quarta di copertina di Luci da Oriente.

Questa rinuncia a una tessitura verbale e a un livello intonativo che incidano le così dette cose ultime – se può esistere qualcosa di ulteriore alla vita – non attenua la vocazione alla forma e a un disegno di relazioni strutturali e prosodiche, come mostrano un po’ tutte le opere di Vailati, per via di una scaltrita, benché non scorporata, tecnica evocativa che nulla ha mai lasciato al caso. Nella versificazione debolmente – diciamo: non pervasivamente – diaristica e nell’interpretazione soggettiva del verso istituzionale risaltano l’esattezza nomenclatoria e la linearità dell’aggettivazione a discapito della sofisticazione del dettato; rileviamo una architettura lirica in rime irregolari e non strutturanti (che comunque cooperano al respiro ritmico dello strato sonoro) che si incarica di dissolvere le incrinature negli stacchi tra flusso di coscienza e dialoghi, nelle intersezioni dei piani temporali. L’uso da un lato dell’enjambement, dall’altro della rima baciata, sembra suggerire una dialettica tra prorsus e versus, tra la gettatezza del tempo proteso e il ciclico tornare del tempo su se stesso nel moto assiduo della memoria.

A questo amalgama testuale pertanto concorrono il ritmo, l’inflessione e la correlazione dei diversi strati tematici e temporali, la cui sconnessione avrebbe dato luogo a una fuga di segmenti, di luoghi, di effetti retrospettivi e di pensieri dell’io lirico, in altri termini a una diffrazione delle risonanze in costellazioni prive di nessi e di rinvii semantici, a un senza tempo nel cui ambito il ricordo non sarebbe neppure sentito come proprio. Mentre la trasparenza delle ombre dell’ora è percepita quanto più si restringe il campo degli affetti e delle cure e ci si sottrae alla psicologia collettiva, al mare dell’oggettività, alla numerosità della folla amorfa, della massa standardizzata che ha assimilato la lezione della moltitudine, come osserva Silvio Raffo in Prefazione. Così, poesia per Vailati è una presa di distanza dalla farragine verbale, dall’esasperante brusio glossolalico e ipnotico e dalla chiacchiera ideologica e mediatica, dalla fatua ed elusiva Gerede che ostruisce il pensiero rammemorante, e che scambia l’oscurità per il chiarore, e il suono insensato e il senso collassato per significati («Da ogni parte si levano le voci / ed è un tam-tam»).

A soddisfare questa tensione alla distanza come protezione è assunto il simbolismo della luce affinché nebulizzi «l’oscuro presagio di nuvole», le «sagome d’ombra» ed echi di voci già ingoiate dalla notte. Lumen, allora, che trattiene qualcosa di affine alla luce divina, se pure nella diafania di una vaga speranza. «Luce» implica anche un essere evidente, l’apparire, l’essere raggio, chiarità gettata sull’origine. Del resto, la poesia stessa è origine di luce – benché fossimo sideralmente, e radicalmente, lontani dall’estetica medioevale, dallo spirito del dantesco passaggio mistico dall’oscurità allo splendore. E dalla visione di Agostino della luce come condizione della conoscenza.

Dalla luce alle luci dell’Est garanti della continuità della vita. La luce, qui sul momento richiamata nell’esergo luziano, era un elemento centrale, come si ricava anche dalla ricorsività della parola, in Piccolo canzoniere privato (e la nascita costituisce il transito per eccellenza dal buio alla luce), di cui leggiamo l’incipit: «E se qui ancora tace la mattina / e non riporta dal passato un caro / viso morto, altre morti già saranno / come tue, tanto indefinibili», dove la luce del passato smorza l’abisso scavato da un vuoto oggettivo. Ma anche in altre opere di Vailati, là dove un’alba, seppure pallidissima, è il circolo infinito della luce che segna il riattivarsi della memoria e della vita dall’oblio – che come più volte è stato osservato, non è dimenticanza per difetto mnemonico, una anomalia del sistema memoriale, ma la sua condizione necessaria, giacché senza il temporaneo oblio di innumerevoli stati di coscienza non saremmo in condizioni di ricordare alcunché.

Nella quarta sezione, eponima, di Luci da Oriente il motivo del risveglio attraverso la sorgente luminosa si erge a qualcosa di metaindividuale, per poi tornare nella sfera dei due soggetti dialoganti: la luce di cui esistiamo sorge a Est e tutto avvolge e rischiara, come in una rinascita, con il disperdersi del crepuscolo e il diradarsi della nebbia. Dalla luce sfilacciata e versata nei riflessi di alcuni scenari liquidi del Moto perpetuo dell’acqua (2020, Introduzione di Paolo Ruffilli), la luce diviene parola chiave in Vailati, nell’accezione simbolica di uscita dall’intrasparenza verso la visibilità e una possibile ascrizione di senso, l’aurorale speranza di esprimere l’universo sommerso del nostro essere stati. È l’«albeggiare» di opere precedenti, in Sulla lemniscata – Ombra della luce (2017, Prefazione di D. Battaggia), ad esempio. Con il passare degli anni spesso la visione delle cose si fa più chiara, mentre, e forse proprio per questo, perché le identità che ci avevano ispirati, implicati, illusi sono profondamente mutate o svanite o spente, il loro senso al contrario si perde, sicché il rapporto tra l’esperienza e il suo senso è sempre inversamente proporzionale. Se la vita non va a lezione di tenebre, la luce-verità sembra tuttavia un binomio ancora incagliato nell’ombra – o in ossimoro, nell’«ombra della luce» –, quasi, come nel testo di epilogo, a fermare con altre nomenclature il dualismo perenne tra determinismo e speranza. Un’apertura «al nuovo chiaro», lievissima rispetto al nucleo emotivo categoricamente dato in incipit, ma pur sempre un’apertura.


Credo che sia una cosa troppo seria

confondere d’inverno con la nebbia

quel poco di luce che da oriente

risale nel piovigginare. È strano,

ripeto fra me – e non mi riconosco

sentirmi dire una cosa tanto uguale

a quel pensiero ormai così banale

sullo stato del tempo. Ah, non è questo!

tu esclami guardando più lontano

aprirsi verso est quella cortina

e dissiparsi dentro la mattina

la sua velatura al nuovo chiaro.

mercoledì 20 marzo 2024

Renato Serra traduttore di Maeterlinck

Ciò che spinse Serra (in una data imprecisata, ma che stile tono e spirito inducono a non ritenere lontana dal celebre saggio su Pascoli) a compiere la traduzione, che ora presento, dal Double jardin (eterogenea raccolta di saggi edita nel 1904) di Maurice Maeterlinck fu, forse, una celata ma sensibilissima affinità elettiva 一 simile a quella che a Maeterlinck stesso legò i poeti crepuscolari, cui la fisionomia di Serra, provinciale, per tanti aspetti sommessa, chiaroscurale e smorzata, fu a sua volta, come dimostrano le Lettere, vicina. È, peraltro, in sé, la pagina di Maeterlinck, un esempio di quella philosophie imagée et artiste, di quella scrittura filosofica immaginosa ed artistica, di cui si ebbero vari esempi tra la fine dell’Ottocento e gli albori del nuovo secolo: una filosofia, o meglio una saggistica (si potrebbe citare anche l’oggi quasi dimenticato Camille Mauclair), che si esprimevano attraverso il simbolo, l’analogia, la condensazione metaforica, la rapida evocazione allusiva, anziché attraverso l’argomentazione graduale, articolata e severa. È quasi come se la prosa di Maeterlinck fosse animata, mossa e sospinta da quella stessa forza rampollante e germogliante che pervade la natura vegetale in essa raffigurata. Le immagini nascono dalle immagini, si snodano e si inanellano in un divenire che parrebbe infinito, come nella “strofe lunga” di D’Annunzio, sino a sfiorare il rischio di un eccesso barocco, di un lussureggiante debordare (e la penna dello stesso Serra, di fronte alla «surabondance» del testo francese, oscilla ed esita fra «sovrabbondanza» e «ricchezza»). 

giovedì 9 gennaio 2020

Giselda Pontesilli, "Per Mario Perniola ('Del sentire cattolico')"



Sto seduta in una scuola
che non ho mai frequentato


in un’aula d’altri tempi
in un banchetto di legno lavorato
in un lontano passato:


meraviglioso oggetto
col piano, lievemente inclinato,
di riposata, ripensata altezza
che educhi conforti
a una posizione lieta
desta: è
apribile (all’interno
si possono riservare varie cose)
e di lato
ha una specie di piccolo
scaffaletto, per gli antichi libri -penso-
che -col pensiero- vi trasporto
vi metto.


L’aula è ampia
con tende veneziane
alle vetrate ampie, bianche, arcuate.
La cattedra
in alto, dominante
è di forma non pesante, svasata
è davanti
a una grande croce lignea dipinta,
con il Cristo:
un’icona -penso-
e di fianco
in simmetrica asimmetria differenza
Venere con le Grazie
di Botticelli.


Siamo nell’Istituto
Villa Sora, dei Salesiani
vi si stanno svolgendo,
non in quest’aula, esami
di idoneità.

giovedì 28 novembre 2019

Giancarlo Pontiggia, "Quanto pesa il cielo sulla poesia contemporanea. Riflessioni sul rapporto fra scienza e letteratura"



Ho l'onore di presentare il testo di una conferenza su poesia e scienza che Giancarlo Pontiggia ha tenuto a San Mauro Pascoli.
Essa rientra appieno, per indole e caratteri (come si nota immediatamente, avvertendovi, quasi, un tono e un ritmo familiari), nella tradizione della saggistica e della critica dei poeti (Montale, Eliot), che fonde una erudizione mai gratuita con un autentico afflato lirico e un caldo fervore conoscitivo.
Certi accostamenti, che devono il proprio fascino precisamente al loro carattere repentino e sorprendente, e perciò ancor più illuminante, sono proprio l'elemento peculiare della critica dei poeti.
Alcuni testi dell'autore come Penso l’estremo del frammento sembrano tutti attraversati da quella stessa aleatoria e insidiosa vibrazione quantica di cui tratta la conferenza. "Tra i pochi frammenti di quel cielo / fiammante e impervio / rassicuro i vostri sciami ronzanti, e riprendo / il cammino (oh, ma fra quali ombre e quali / urti?)". Qui la realtà fenomenica pare davvero, come nella fisica contemporanea, null'altro che una sottilissima corazza di elettroni sotto la quale si agita l'infinità del buio e del vuoto. La stessa finissima tramatura fonica dei versi e delle sillabe sembra velare gli abissi della memoria, i gorghi intorti dei molti significati possibili. Ma infine è la Parola poetica, il Verbum, il carmen, che nonostante tutto consente di inoltrarsi nella nebbia di quell'avvolgente vibrio "con passi / certi / come un’antica preghiera".
Forse la visione quantistica non è inconciliabile con l'umanesimo. Proprio l'evanescenza, l'aleatorietà dei fenomeni - proprio la relativizzazione, la dissoluzione quasi, dell'oggettività, della datità - potrebbero indurre a rivisitare l'idea della centralità dell'uomo, dell'uomo-misura, dell'uomo-metron: in questa chiave potrebbe essere letto il principio di Heisenberg. Del resto, secondo il "principio antropico" l'universo, malgrado la sua aleatorietà, l'apparente assoluta casualità della sua origine da una primordiale "schiuma quantica" (che fa pensare tanto al Caos di Esiodo e di Ovidio quanto al vuoto e all'abisso, al tohu va bohu, della Genesi biblica, su cui aleggiava la ruah, lo Spirito di Dio), è così com'è proprio perché, se così non fosse, noi non potremmo conoscerlo.
E l'imprevedibile clinamen di cui parla Lucrezio, l'imponderabile moto di deviazione e aggregazione degli atomi che dà forma ai corpi e agli esseri (come le lettere alle parole, e le parole ai versi) non è poi molto differente dall'indeterminazione quantistica (secondo un'affinità che, malgrado le differenze macroscopiche, Heisenberg riteneva non potesse essere casuale); né l'ispirazione e la creazione poetiche, nel dare, sincronicamente e diacronicamente, forma all'informe, coesione e comunicabilità all'istante vertiginoso e difficilmente governabile e disciplinabile (tanto che l'autorità intellettuale, e spesso anche politica, ha sempre cercato di legiferare sulla poesia come sull'amore, sulla religione, sulla guerra) dell'intuizione e della dantesca, aurorale "volontà di dire", sono poi molto dissimili dalle "strutture dissipative", dagli impulsi e dai vettori dell'"autopoiesi" che, nel mondo fisico, generano spontanemente, per moto proprio, ordine dal caos. 
Bigongiari, il tanto incompreso e vilipeso Bigongiari, in Antimateria, seppe dare mirabilmente voce poetica alla visione quantistica:

Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.

Il caos - almeno apparente - della materia e degli eventi si ricompone proprio nella Parola - che pure è, proprio per questo, segnata dal tremore di un'inquietudine insanabile, dalla possibilità e dalla pulsione di una disgregazione. Lo stesso vale, in fondo, per la materia vivente; che solo un misterioso principio neghentropico, solo una oscura e severa volontà di persistenza, trattiene dalla dissoluzione - così come la mente resiste, disperatamente, alla follia.
Forse, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è stata, nel secondo Novecento, una poesia più vicina al lirismo tradizionale, più tesa a salvaguardare l'integrita dell'io lirico come principium individuationis, e non la poesia sperimentale e d'avanguardia, "atonale" o "informale", ad esprimere questa ricerca di ordine nel caos, dell'unità e del senso nella deriva dell'entropia.
Il che significa che forse vale ancora, pur in un orizzonte di senso e in una visione dell'universo radicalmente mutati, ciò che scriveva Matthew Arnold in Science and Literature. La poesia (ma già Leopardi in fondo intuiva qualcosa di simile) deve ricomporre, attraverso l'analogia, le ferite e le fratture che la dissezione dell'analisi scientifica ha inferto al volto e al grembo della Natura.
Oggi l'indeterminazione quantistica (analogo fisico, in fondo, della pulviscolare polisemia del discorso poetico da Mallarmé in poi) offre al poeta un nuovo serbatoio di metafore. E la possiiblità, paradossale, di un nuovo, ennesimo, estremo e postremo, forse, classicismo; forme perfette e insieme imperfette, fatalmente frammentarie; intimamente segnate, però, dall'armonia a cui tesero invano, e, nel contempo, intrise e venate delle inquietudini e degli smarrimenti immedicabili da cui sorsero, e su cui continuano a fluttuare e vibrare, come la materia sul caos cui è destinata a tornare, e come l'illusione della realtà sull'abisso del nulla. (M. V.)

martedì 9 luglio 2019

Sulla traduzione intralinguistica



(riprende ed amplia un contributo apparso su “Atelier”, XXIII, 2018, n. 90, pp. 59-61)

Qualche riflessione può essere ispirata dall'inchiesta che la rivista Atelier ha recentemente dedicato al tema, relativamente poco esplorato, di quella che Roman Jacobson chiamava, in alcune pagine teoriche del 1959, intralinguistic translation, intesa come rewording, trasfigurazione o transustanziazione di un testo da una forma all'altra, ma all'interno dello stesso idioma.
Ci si può chiedere se le traduzioni invecchino; se esse risentano, al pari di ogni altro testo, del passare del tempo, e finiscano per essere velate da una pàtina d'estraneità e d'anacronismo.
Ma una traduzione artisticamente e stilisticamente degna di un'opera che abbia essa stessa dignità d'arte, che non sia letteratura commerciale ed effimera, è a tutti gli effetti a propria volta un'opera letteraria, un'opera creativa, e come tale è espressione sia dell'autore tradotto che del traduttore che dei sistemi culturali e letterari a cui essi appartengono. Il valore artistico, culturale, storico, testimoniale di quel testo continuerà ad essere vivo e a parlare ai posteri.