mercoledì 3 giugno 2009

RETORICA DELL'IMMAGINE, LOGICA DEL DENARO E SFIDUCIA NELL'EDUCAZIONE. RIFLESSIONI SULLA SCUOLA, PARTENDO DA DE SANCTIS

Chi ancor oggi parla, con una retorica che suona a tratti quasi mazziniana o deamicisiana, di "missione educativa" non ha, perlopiù, mai messo piede in una classe.

Gli unici che a a scuola fanno qualcosa di sensato sono, forse, gli insegnanti di sostegno, che almeno cercano di aiutare un minimo, e nei limiti del possibile, alunni che ne hanno davvero bisogno, e che se creano problemi non lo fanno per colpa loro o per cattiveria (come i normali, per i quali far star male un insegnante è un divertimento, una scommessa, un innocuo motivo di chiacchiere, scherzi e risibili pettegolezzi), ma per la malattia (o la "disabilità", la"diversabilità", come si usa dire con quegli eufemismi tipici dell'"antilingua" su cui ironizzava amaramente Calvino, e che finiscono per svilire ulteriormente una realtà nel momento stesso in cui cercano di raddolcirla paternalisticamente, o di comodamente occultarla).

"Conchiusi che la rettorica, attirando l'attenzione sopra forme esteriori alle cose e appariscenti di falsa luce, indirizza la gioventú alla menzogna, e la svia da' forti studi,guasta l'intelletto e il cuore. Dissi il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell'immaginazione e nel sentimento. 'Buttate al foco le rettoriche, - dicevo, - e anche le logiche. Ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose, questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa l'intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola'".

Questo ai tempi del giovane De Sanctis. Noi, che Verbo possiamo trasmettere? E poi, chi lo ascolterebbe? Ed esistono ancora le cose, le "res" che i "verba" dovrebbero fedelmente e onestamente seguire e ricalcare, in quest'era digitale, virtuale, illusoria, immateriale, fatta di non-luoghi e di paradisi artificiali?

Noi sì che siamo soggiogati dalla logica e dalla retorica. Ma da una logica che non è quella di Aristotele o di Hegel, ma quella del denaro. E da una retorica che non è quella della parola e della persuasione argomentata, ma quella irriflessa, istantanea, prerazionale, precritica (e perciò onnipotente, sottratta ad ogni controllo), dell'immagine.

Né possiamo (come ripete qualcuno) insegnare ad analizzare criticamente quest'ultima, perché l'Immagine, ormai signora di ogni cosa, è sempre e comunque più veloce e più penetrante del pensiero e della parola. Ci si consola, nel privato, con il "vizio solitario" di una letteratura splendida e inutile, che non ha (né, almeno nella modernità, basata sull'autonomia dell'arte, ha forse mai avuto) alcuna funzione educativa, alcun valore formativo - ma è sempre stata, come diceva Petrarca, un "alieniloquium", un parlare d'altro, un pensare ad altro, una preziosa divagazione, una decorazione essenziale, finissima, la quale pure lasciava intravedere, agli occhi acuti di chi un tempo sapeva scorgerle, profondità nascoste, risonanze segrete ed originarie.

La poesia non serve a nulla, è assolutamente e splendidamente inutile, diceva Montale, con una sincerità travestita da snobismo, all'Accademia di Svezia, all'atto di ricevere il Nobel (Aldous Huxley, non diversamente, considerava l'etrusco, proprio perché assolutamente morto, dimenticato, in larga parte incomprensibile, l'unica lingua degna di essere studiata da un gentiluomo).

La poesia, soggiungerà Fortini, non muta nulla, non salva e non può salvare il mondo dalla violenza, dall'assurdo, dall'ingiustizia, dal male. Eppure, nonostante tutto, non si può far altro che continuare, disperatamente, con appassionato ed assurdo - e magari distaccato, rassegnato ed amaro - amore, a scrivere.

La poesia non muta nulla. "Nulla è sicuro. Ma scrivi".

Forse proprio a a partire da ciò, muovendo da questo vuoto, dal dato preliminare e sostanziale di questa nullificazione, la funzione educativa della Parola, del Verbo, può, paradossalmente, risorgere (magari, come diceva un filosofo, per educare non tanto ai "valori", quanto, più realisticamente, "alla disperazione", che bisogna guardare in faccia senza illusioni e senza autoinganni).


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