sabato 13 febbraio 2010

LA POESIA FRA IMMAGINAZIONE E SCIENZA. DOMANDE DI PATRIZIA GAROFALO A PAOLO RUFFILLI

Sollecitato dalle domande acute e simpatetiche dell'intervistatrice, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei rivela alcuni nuclei essenziali della sua concezione. In particolare, nella sua visione la lettura scientifica del mondo si fonde con quella poetica. Lo spazio-tempo in cui si muove l'immaginario del poeta è quello di Einstein, dilatato fino ai confini del cosmo curvilineo, finito ma illimitato, e ricorsivo, tornante su se stesso fino a fondere idealmente infinita lontananza e infinita compresenza del medesimo a se stesso (chi fissasse il confine estremo dell'universo, chi davvero cogliesse “l'ultimo orizzonte”, vedrebbe la propria nuca, così come la parola poetica torna a se stessa e riflette se stessa dopo aver teso a trascendersi, aver tentato di abbracciare l'illimite).

La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.

La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.

«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).

La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).


L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?


La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.


L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?

Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.

“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?

Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.

La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?


Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…

Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?

Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.

La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?

Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…

Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?

Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.

Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?


Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.

Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?

Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.


Per acquistare il libro:

http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-ruffilli_paolo/sku-12787645/le_stanze_del_cielo_.htm

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