martedì 25 settembre 2018

"Five years, no tears". Massimo Sannelli dopo Neuromelò



(con le grafiche dell’autore e una foto di Fabio Giovinazzo)
Lotta di Classico, Genova 2018, pp. 80 (non numerate)

a cura di Elisabetta Brizio


Sono già cinque anni: nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto. 

Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?

Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce, e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo lei chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica, o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo ambito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è cosí, è inutile andare avanti...


Rinnegare l’errore è un piacere.
La coscienza si giudica e stabilisce una graduatoria delle azioni. Ogni azione è legata ad una persona, nel caso di chi scrive poesia: un dedicatario, un compagno di strada, una faccia più o meno amata. La graduatoria delle azioni diventa sùbito una graduatoria di persone. Questo è ovvio e diventa il tono «eccitato e categorico». Si potrebbe dire anche «agitato e allegorico».
L’abiura si slancia con quell’eccitazione, e allora sembra rivolta solo alle persone (che nella poesia diventano causa e fine delle azioni – l’ho detto, questo, per la mia vergogna? Sí: l’ho detto, per la mia vergogna). Ma l’abiura è rivolta anche ad un’illusione. In principio ci sono i termini e la sintassi. I termini e la sintassi possono essere chiamati ad essere non-termini e non-sintassi. Cosí i termini e la sintassi diventano fonemi, utilizzati singolarmente, fino a creare una specie di musica linguistica, ma senza leggi di concatenazione. Ho usato i termini e la sintassi per fare qualcosa che è l’esatto contrario della loro natura. Ma la musica si fa all’interno della disciplina musicale; e la letteratura si fa all’interno della disciplina letteraria. Ho sempre composto musica elettronica, e l’ho sempre disintegrata. Poi ho deciso di salvarla, e tutto ciò che io salvo deve avere un fine pratico. Un giorno ho trovato il fine: la musica sarà la colonna sonora di alcune opere filmiche.
Se ho trovato la musica della musica, che me ne faccio – e a che cosa serve – una lingua trasformata (con violenza) in fonemi? Non è una pura questione estetica. È una questione di violenza. Davvero. Tu stai nell’irregolarità di una bestemmia continua e credi che sia sana e giusta (anche perché Giovenale, Mesa, Cortellessa, Ostuni, Zublena dicono che il tuo lavoro è interessante: sono sinceri, ma tu ti senti a disagio – per ora è solo disagio – e non capisci perché: perché sei a disagio? perché non capisci il perché? E stai già notando che sono tutti maschi, va bene, ma non sei contento: dove sono le donne, a parte le loro compagne?).
Stai cuocendo a fuoco lento: vivi nella nevrosi, condivisa con altri (ti cooptano, ovviamente, e diventano i tuoi primi amici: in effetti qualche favore te lo fanno, a condizione che tu aderisca a certe leggi non scritte, neanche troppo dure). E poi vivi senza ebbrezza e senza coraggio. Vuoi il primato dei fonemi? E allora devi andare fino in fondo, sul lago ghiacciato. Là sotto c’è Ono di Cesare Viviani: «ono ono todào lota ma dina: / lota poramatè lello solai / o mino coti so malla serína / vetèste pu folce».
Se non si arriva fino in fondo si è ibridi, un po’ chiari e un po’ scuri, decifrabili e indecifrabili, amici degli amici e anima di una mania collettiva. Un giorno Giuliano Mesa mi offrí un prosecco (lo so, basta dire prosecco e l’eroicità delle virtú è morta). Disse: «Ti devo redarguire». Il giorno prima ero andato a parlare di Pasolini – un uomo ricco – nella ricca galleria di Simona Marchini, nella ricca via del Corso, a Roma. Ai ricchi, diversi da me, avevo parlato gratis di un ricco, diverso da me, ma il punto non è questo. Non si trattava del vecchio odio di classe.
La critica di Mesa si può esprimere in poche righe: tu devasti la sintassi e il lessico per fare una musica obbediente ad altri (gli altri sono amici, che in effetti qualche favore te lo fanno). E poi vai a parlare del nostro peggior nemico, il Narciso narcisista? Tu non rispetti la nostra politica extraparlamentare e contesti la nostra lotta linguistica al sistema. È una lotta vana, fatua e vacua; è intossicata da nevrosi e sostanze, oltre che dall’ipocrisia, ma comunque è una lotta, mio caro. E ora porti un ramo d’alloro a Simona Marchini, felice di farlo? Tu ci vuoi tutti morti. Pazzo, ti devo redarguire.
[Le malizie dell’arte amicale sono meravigliose].

Hanno occupato l’orizzonte di questi suoi cinque anni alcune nuove opere: Intendyo, Venti sonetti, Poesie nello stile del 1940, Memoriale della lingua italiana, L’Assoluto, FW 17-18 Men’s Collection. E poi sceneggiature, grafiche, musica elettronica, articoli, prefazioni, editing, saggi (lei rifiuta del tutto l’idea del poeta che fa solo il poeta, e so bene che lei assomiglia a quel personaggio della Messa è finita di Nanni Moretti che dice «vivere è volgare»). Opere non rifiutate, anche nella misura della rivendicazione – e di conseguenza della conquista e quindi della pratica – di uno stile. Era questo un termine da superare a sua volta, altrimenti cosa la spinge a dire che un altro ciclo si è irreversibilmente concluso? Oltre tutto, non si avverte uno scarto significativo tra lo stile e i temi di Neuromelò e le opere sopra ricordate. Alcuni temi non paiono ripresi a caso, alcuni in particolare – ripetizioni-riscontri – sono riconoscibilissimi. Cosí da Sannelli che li puoi indicare con il dito: l’opera come segmento e totalità, la tensione con i richiami del passato, il sesso, le stanze, il corpo, gli amori, le città, le strade, gli antagonismi, la musica. E le loro diramazioni sempre mutevoli. Cosa che del resto lei conferma nella Nota, dicendo che la vera novità viene dalla «pratica della musica elettronica». Ma lei non è nuovo neppure in questo. Non credo che il fatto inedito stia solo nel dichiarare il suo abbandono della poesia...

Si dice che non esistono pasti gratis. Quelli recuperati dalla spazzatura, forse: io so che cosa significa, ma non si riesce a spiegarlo nemmeno filmando il fiuto & il rifiuto nell’Arte del Fauno di Fabio Giovinazzo. Non esiste nemmeno un rapporto sessuale veramente gratuito (e forse è giusto cosí). L’umano si mortifica troppo nella creazione di storie e di rapporti: perché qualsiasi cosa umana deve essere inserita in una storia e in un rapporto. Ogni gesto deve essere sociale, e ogni fatto sociale deve involgarirsi nell’atto di mangiare in compagnia.
Ma la gratuità è divinamente superficiale, e quindi bella (secondo me).
L’atto è un fatto, da súbito, e si abbandona nell’istante in cui è stato visto (secondo me). [Dirò dopo che la nominazione è sorella della visione].
Per questo le opere devono essere molte e varie (secondo me).
[Dicendo questo ho assecondato la mia insopportabile asocialità].
Posso confessare un amore ossessivo per la superficie dei fenomeni?
Ho un amore ossessivo per la superficie dei fenomeni. [Ma non devo piú bestemmiarla, questa superficie; non devo piú ridurla ad un reticolo di fonemi in un reticolo di comunicazioni tra amici; proprio perché lo so, oggi, devo praticare altre vie: tutte superficiali e tutte impegnative].

Questa estate mi disse che stava lavorando all’ultima serie italiana e che avrebbe abbandonato la nostra lingua (nel suo Diario online lo ha già fatto). Perché?

Posso rispondere con un po’ di durezza, approfittando dell’aggettivo nostra? Bene: io ho già abbandonato la vostra lingua; e anche la loro lingua. Ma adesso non dirò la banalità: ho scoperto la mia lingua. Non c’è una mia lingua. C’è un’intenzione, questo sí. E l’intenzione è asociale e superficiale, cioè un’adoratrice un po’ monastica dell’apparenza. [Karl Lagerfeld è quasi l’idolo della Camerata Informale che ho creato. Non è una battuta. Lavorare l’apparenza per stare nell’apparenza è pura grazia, per me].
Per favore, non riduciamo tutto a io-noi-voi-essi. Dobbiamo morire, tutti, e la nostra mortalità rende volgare qualsiasi contrapposizione. Solo un essere eterno ha – o avrebbe – sempre ragione. A volte dico che sono un vampiro. È una battuta ma indica che aspiro ad una certa immortalità (anche per vanità). Ma se non sono letteralmente immortale, perché un moribondo dovrebbe dire «io! io!» davanti ad un coro moribondo che dice «noi! noi!»? Meglio godersi la superficie variata dell’erba o di Schubert.

Ogni libro interpreta gli anni del suo autore, scandisce i tempi della stessa opera, dalla stessa sponda: la vita. Non perdendo mai il presente. Neuromelò è davvero un libro che dimette la poesia? Quando la copertina sembrerebbe dire il contrario, alludere a una ripresa, a un riavvio: nella «o» di «neuromelò» dirompe il colore, il rosso. Inoltre, digradano in nero i caratteri nella terza immagine, ma per risorgere accesi e smaglianti nell’ultima. È una banalità o un segnale? Che cosa rinascerà?

La felicità, no? Che altro deve rinascere? Il poeta non si pone mai il problema di rendere felice qualcuno? Un cantante sí, credo. Anche perché Elton John si considererà un grande entertainer, prima di tutto (come gli incredibili neomelodici in Belluscone di Maresco: intrattenitori, con il loro strano carisma). Invece il poeta deve essere quello che addita e quello che denuncia, quello che guida e quello che soffre.
Ecco un esempio. Pochi giorni fa, Maria Grazia Calandrone scrive in Facebook che «i poeti non indicano il muro che vediamo, ma l’infinito che sta oltre». La frase è retoricamente procace, anche perché [mi] ricorda il frammento 93 DK di Eraclito. Allora mi sono chiesto: e io, che cosa indico? [Pausa di riflessione; mano sulla fronte: la risposta non arriva perché nasce un’altra domanda:] Ma perché devo indicare? [Sospiro di sollievo. E dal sollievo nasce un punto fermo:] Io osservo. [tra poco l’indicativo si spiega meglio, e poi piovono domande:] Osservo il muro, di per sé. È a secco? antico o moderno? è di cemento armato? chi l’ha costruito e perché? e perché è caduto? Prima dell’infinito ci sono infinite domande. Queste domande sono piú luccicanti dell’infinito, che è un’astrazione (o un idolo indolore).
Rinasce l’idea pratica: io ti regalo un libro, che non ho pagato, e non lo devi pagare neanche tu. Se ti rende felice, bene: l’ho fatto apposta (come dicono i bambini: l’ho fatto apposta). [Ma chi ha costruito il muro sotto il monte Cordona? E perché? E quando? Il pastore fu anche muratore? Si improvvisò muratore o aveva il mestiere in mano? Chiamò un muratore che non era pastore? Anche il muro è stato fatto apposta: sí, ma perché e quando?].

Nel 2016 uscí l’e-book – che includeva alcuni nostri dialoghi, e interventi di Matteo Veronesi e miei – dal titolo Il caso Massimo Sannelli. E l’abiura del 2013 solo marginalmente contribuí alla scelta della parola caso. Darebbe un titolo del tipo post poetry, dopo la poesia, oppure della poesia dopo a un eventuale intervento sulla sua opera futura?

No. Nessun titolo. Non si può dare un titolo al dopo. Come faccio a nominare una superficie futura, se non l’ho ancora vista? Ecco un’idea: il nesso tra visione e nominazione. Lo accenno superficialmente – appunto – e lo passo agli interpreti [io mi stanco di pensare nel momento stesso in cui penso: davvero].

È già tanto che non mi abbia presa a schiaffi, come, ancora, Nanni Moretti in Palombella rossa: anche per lei «le parole sono importanti». Ma ora stiamo a questo titolo: Neuromelò. Esito di una costruzione dialettica, insomma una parola composta, ma ovviamente concepita come unitaria – e infatti qui univerbata. Che allude a una interdipendenza, che condensa dei significati, e probabilmente degli intenti. Quali?

Le prime due risposte sono duttili. Si adatteranno anche a questa domanda. Naturalmente l’ho fatto apposta.

Di séguito un frammento da Neuromelò, il resto al lettore.

il cuore-in-mano parla, e dice «non puoi vendere»;
e se non posso vendere avrò Venere, presto. Sarà fatto

questo. Il sesso preme il nervo, il giorno vuole il gioco,
il gioco vuole un’ora, un’ora chiama piccole
lacrime di sale. Va bene?

gli Esperimenti nuovi esistono, esitano, si spengono. Rifarli
è semplice: rinascono, ritornano, si sentono. Un frutto
rosa e rosso non si nega piú: è un uso molto mosso della storia
che fu dei sensi e ai sensi torna sempre:

neuromelò è la grande prova dei nervi.

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