venerdì 4 novembre 2011

Elisabetta Brizio, "Aver a che fare con il cuore. 'Affari di cuore' di Paolo Ruffilli"



Aver a che fare con il cuore. Affari di cuore di Paolo Ruffilli


Affari di cuore (Einaudi 2011): esteriormente, un libro di versi che enfatizza l’esperienza erotica. Ma già la parola affare, per la varia serie dei suoi significati, suona come un preliminare avvertimento: si sta parlando di una faccenda complessa, di qualcosa che potrebbe prendere una piega indesiderata, o che non è possibile circostanziare. O di una questione riservata. Di una cura. Estensivamente, è un avere a che fare con il cuore. Con il cuore e con un essere pensante. Una gamma ambigua e pluriversa di sensi e sfumature che la lingua inglese sintetizza con l’idea di love affair: storia, vicenda, esperienza, coinvolgimento; nodo che avvince; forse destino. Ma anche insidia, sviamento, in qualche caso sofferenza. Ad facere: un impegnarsi alimentato dal soggetto e proteso verso l’altro.
In Affari di cuore non siamo troppo lontani dalla prospettiva mengaldiana, relativa al Ruffilli della Gioia e il lutto, che localizzava una concezione della realtà che «è in fondo tale solo se pensata dal soggetto». Qui l’immaginazione si era messa al servizio del pensiero: raccontare il disfacimento del corpo vedendo con la mente, fingendosi, leopardianamente, situazioni non direttamente sperimentate. E analogamente, delineare la privazione della libertà, come avveniva in Le stanze del cielo, l’imprigionamento del «morire senza morte». «Pensiero e immaginazione» titolava con sigla pregnante Alfredo Giuliani le sue pagine introduttive a Le stanze del cielo.
Ora, raccontare storie d’amore e di disamore Ruffilli lo aveva fatto quasi pervasivamente, tanto in versi che in prosa, come nelle intense scene di spezzature esistenziali che compongono Un’altra vita, situazioni verosimilissime e non sentimentalizzate, comunque anch’esse esiti del fingersi, frammiste a liriche e emotivamente alonate descrizioni di paesaggi che si sostituivano al discorso diretto, che prendevano il posto della parola, introflessa, non razionalmente verbalizzabile, di alcuni dei protagonisti delle storie. Cosa che induce a considerare parecchi inserti paesaggistici ruffilliani come altrettanti referti di pensiero altrimenti designato. E nel più recente romanzo L’isola e il sogno l’amore era tema centralissimo: meglio, era centrale la questione del come conciliare il dissidio tra la dimensione organica e quella spirituale dell’eros. Dilemma di fatto non conciliabile, tanto che Ippolito, il protagonista del romanzo, fortuitamente, e emblematicamente, naufraga con la tragica coscienza di questa dicotomia, che forse aveva intuito potersi ricomporre in un amore assoluto, ma avvertito come elemento destabilizzante e di deriva della ragione.
In Affari di cuore viene in parte meno la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del «pensare poeticamente», viene meno solo nella misura in cui tanti versi sono sostanziati di una quasi tangibile materialità dei corpi, tutt’altro che stilizzata e sublimata. Ed è il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore potrebbe apparire come la vera trama di quest’opera, là dove la configurazione del fingersi sembrerebbe meno decisiva, data l’intensa partecipazione emotiva del locutore. Ma non si tratta, in fondo, della stessa partecipazione emotiva che ha da sempre attraversato le opere ruffilliane? Cosa altro muoveva, allora, Ruffilli in La gioia e il lutto e in Le stanze del cielo a partecipare di forme di angoscia che solo marginalmente inerivano la propria persona? Ma siamo di fronte a delle trasfigurazioni poetiche, nelle quali non è affatto scontato che il soggetto lirico coincida con quello dell’esperienza.
Tuttavia, il soggetto, poetico o empirico che sia, è eminentemente pensante, tenta di attribuire senso e ordine agli accadimenti, alle immagini del sogno, si domanda, si ricorda, si scorge, e in particolare ricerca – magari senza esito alcuno – l’in sé dell’accaduto, tentando di farne preliminarmente astrazione. Ma la vera difficoltà di pensare l’amore – o, come in questo caso, di scrivere sull’amore – è quella, come avvisava Roland Barthes, di non potersi attenere ad alcuna forma di logica, di non riuscire a «pensare con lucidità», perché «la riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini». L’amore è inanalizzabile, un enigma non concettualizzabile, e insieme, scrive Ruffilli, «un assalto / di pura conoscenza», che gli farà dire, come responso critico e consapevole: «Perché ti amo / io non lo so / ma è un fatto». Un fatto, un prodotto della immaginazione individuale, che talora si tende a distinguere dalla dimensione sessuale come spinta fisiologica. Se una traducibilità dell’eros in termini razionali, una sua pensabilità, è cosa difficilmente realizzabile, resta la circostanza che esso abbia a che fare con la mente e con il pensiero, sebbene resti ambito di un discorso noologico in senso vasto. Non solo fare – pur senza pretese di assolutezza – un discorso amoroso, ma l’amore stesso è piuttosto un affare di testa che di cuore, anche nella prospettiva che l’eros dal cuore va alla testa nel delirio sentimentale e che progredisce – o regredisce – in fatto cerebrale, in quanto segna i vari stadi della vita che ognuno, sliricizzando il tempo, non può esimersi dal sondare. E ancora: l’amore è in ultima istanza un affare di testa perché implicato con l’infelicità. In questa – parafrasando il titolo del noto libro ruffilliano – «camera oscura» dell’eros che è Affari di cuore, l’infelicità correlabile all’amore è da considerarsi un affare mentale o una questione di cuore? Se la seconda sezione del libro, meno aperta alle illusioni, si chiude con l’interrogazione: «Perché siamo infelici?».
Leggiamo i versi che Ruffilli ha posto in copertina, versi che sinteticamente restituiscono tutta la complessità dell’opera:

Il letto per l’amore
è un campo di battaglia
del mistero:
vi dura la pace
nella guerra e nel conflitto,
più si è morti
più si vive meglio
da risorti
e, colpendo,
ognuno
vuole essere trafitto.

In questi versi la suggestione della poesia delle cortigiane («Or mi si para il mio letto davante», Veronica Franco) si fonde con il motivo della lucta amoris, dell’amore come combattimento, lacerazione, dagli elegiaci a Tasso. In quanto soggetto amante e insieme oggetto d’amore, il soggetto lirico sembra perdere ogni identità e connotazione: possedente e al contempo posseduto, penetrante e penetrato, compreso e compenetrato in sé stesso, due in uno e uno in due. L’io poetico è carnale e universale, femminile e maschile, esperienziale e sublimato in parola, nodo inscindibile di yin e yang, come nel pensiero orientale. Se per Lucrezio gli amanti cercano invano di congiungersi e nella impossibilità di questo pieno appagamento sta il loro tormento, qui si verifica piuttosto il tormento della gioia, lo svuotamento nella e della pienezza; e molto orientale è anche questo sguardo che gode del mondo, del corpo, dell’altro da sé nel momento stesso in cui ne percepisce la caducità e l’impermanenza.
Cognizione ampiamente suffragata lungo il libro, e che culmina nella probabile idealizzazione dei versi di Ribaltato:

oltre l’alone scuro
del puro desiderio
intrecciato e avvolto
nel punto incandescente
nel buio della notte
che rischiara il buio
ormai uno di due –
di noi a noi
perciò consustanziale
di mai e sempre
di tutto e niente… ce l’hai
eppure no, non vale:
avendolo è come fosse assente.

Allo stadio iniziale di questa fenomenologia dell’eros si situa l’evocazione della pienezza fisica («addosso» è una delle parole-chiave che risuonano in questa poesia, specie nella prima delle quattro sezioni che scandiscono il volume, Per amore, quella dell’inesauribile desiderio), là dove un evidente straniamento verbale fa sì che lui e lei si scambino le parti iperbolizzando una complexio oppositorum diffusamente evocata e semantizzata: nel rispecchiamento della «gioia dell’amante nell’amato», della salvezza che coincide con la perdizione. La coincidenza degli opposti, il possesso dell’altro come essere asintotico e non afferrabile, oggetto di un amore possessivo, il desiderio della reciproca appartenenza, della varia unitas, passano attraverso quel «campo di battaglia / del mistero» che è l’alcova, nella quale, in questa logica di permutazione e di unione totale che si risolve in un «corpo a corpo», «chi cattura / vuol farsi prigioniero», in una inversione dell’ordine dei ruoli («lasciati entrare / poco alla volta / dentro di me»; «E nell’averti in me / è il ritrovarmi intero») dove è lei che finisce per entrare, e precisamente, nella testa dell’amante. Per poi magari tornare al cuore, all’enfasi dell’emozione informe, ma in termini di spasmo dell’anima, coercizione, di soverchiante ossessione.
Dunque, la dominante di quest’opera (anche per la pressoché totale assenza di descrizioni esterne e per l’essenziale atonalismo e la monocromia che la alona) sembrerebbe esser di pensiero, l’ennesima interiorizzazione ruffilliana della materia trattata: è la dimensione fisica a mettere in opera un pensiero ipertrofico che si traduce in dubbio, in delirio interpretativo, nella decostruente inquietudine del soggetto amante, relativamente sia all’amata che a sé stesso. Pensiero chiaroscurale, che coglie insieme l’estasi e l’ombra, che talora trascende nel delirio amoroso di proustiana memoria, o nel riconoscimento del coefficiente impensato veicolato dall’inconscio – la «cascata del pensiero» –, nel tormentarsi congetturando dell’amante nella lontananza, del tradimento che non è sempre detto che si consumi solo con l’atto fisico, o dell’infedeltà legittimata come ricerca dell’amata «dentro a un altro corpo». La «ferita» è allora, sì, evidente correlativo metaforico, o metonimico, dell’oggetto pulsionale, ma insieme fonte di infelicità, ibridazione di due ambiti contestuali come eros e dramma, sfera germinale di una vulnerabilità innescata dal ragionare, o dallo sragionare, sull’amore.
Ricompare nel libro l’ambivalente formula ruffilliana designata come «un’altra vita»: essa rinvia a un umanissimo tendere verso qualcosa di infinibile, e alla eventualità degli esseri di dare un altro corso alla propria esistenza. Ma qui Ruffilli devia e compie uno scarto dal proprio etimo, e ascrive all’espressione il valere come recupero di un’altra forma, che si credeva eclissata, sia di vivere il tempo che di esperire dell’eros. E l’autore sembra autoplagiarsi: «Con te magari / troverò la strada / che non ho trovato»: eco, o addirittura stilema, dei racconti di Un’altra vita. E un’altra vita si inventa, si ritaglia, l’amante presago di Affari di cuore, deluso della circostanza che l’amata trovi «qualcosa di eccitante» nel suo stazionare nell’inappagamento, «amputato nell’attesa».
Nell’incrinarsi della misura dell’illusione non tardano a emergere i retroscena dell’amore (in particolare, inventariati nella seconda sezione, Canzonette della passione amara, ma proletticamente adombrati fin dalla prima), sfila implacabile la trama degli impedimenti che si frappongono alla passione e all’attuazione alla discordia concors, alla interagenza dei contrari, alla reciproca contaminazione nell’«incastro più assoluto», quali una indistinta paura che serra gli amanti, il dubbio di piacere all’altro «senza amore», gli algidi sms sul display del telefonino, semiotica di una presenza che si va dileguando e che rende lei «sicura da distante». Analogamente, lo stesso rischio dell’inaridimento era sul punto di minare la parola poetica prima della asserita conversione stilistica ruffilliana da una gradazione troppo egoriferentesi e incline alla autoindulgenza, e pertanto prescindente dalla cosa («La parola, per me / veniva da distante. / Un a priori, quasi, / l’avvertivo. Un eccitante», elusiva e «inconsistente ai cinque sensi»), conversione dichiarata in Piccola colazione, e che in quest’opera dell’87 promuove un diverso orientamento, una sorta di inversione della precedente riflessione linguistica e delle ragioni che in seguito Ruffilli chiamerà «sentimentali», strettamente implicate con quelle versificanti. Almeno sotto questo aspetto, la parola poetica assomiglia all’amore, due fatti che mirano alla totalità e nei quali pertanto non potrebbe troppo a lungo protrarsi il fatto di bluffare, né sotto il profilo della referenza linguistica né in quello della vita.
Si afferma, in Affari di cuore, la disperazione di «due destini» che si distinguono e si scoprono diversi, benché mescolati nella duplicità-unità dell’amplesso consolatore. Nella dialettica «adulto-adulterato» di cui parlava Ruffilli, fa la sua comparsa una terminologia ostile al «respiro della vita», emerge la constatazione amara che l’altro appartenga a sé solo, e abbia una vita propria non sondabile. All’abbandono all’amore subentrano la diversione, la noia, il senso di esclusione, l’umore depressivo, l’autocontrollo, la percezione di sentirsi oggetto di distrazione, di una passione che con il tempo viene amministrata «per quantità e per date», anziché svolgersi, incondizionatamente, nel «sogno / di unione più totale». E il sogno di amarsi «in nome del passato», congetturando su quel che poteva verificarsi diversamente. La sensazione, inoltre, di essere l’obiettivo di un investimento emotivo tendenzialmente strumentale, epigonico e condizionato («Parli di lui», dice l’amante; «Se solo fossi lui!», gli dice l’amata) o di carattere prevalentemente cerebrale: «Ma tu ti lasci / guidare dalla testa / mentre credi / di affidarti al cuore».
Anche l’io lirico smette di abbandonarsi e diventa quasi sedizioso protagonista della propria «guerra di posizione» (Guerre di posizione è il titolo della terza sezione del libro, dove una forma di amore senza amore finisce talora per sconfinare nella collisione erotica), e comincia a misurare e a riflettere sulla natura, sulla «causa di tanto desiderio». Questa ossessione amorosa fa parte di un meccanismo difensivo, sorge quale antidoto alla paura della vita, o costituisce un tentativo di «arginare il vuoto»? Giacché, come dichiarava lo stesso Ruffilli qualche anno fa, ciò che si teme veramente non è tanto la morte quanto la vacuità dell’esistenza. «Come trovano conforto i sospiri degli amanti?» Nella ricerca condivisa di un oblio, sembrerebbe rispondere Ruffilli. O amare è il modo di eludere una inadeguatezza individuale, o l’opportunità suprema per non riconoscere la verità di amare solo sé stessi: «che non sia proprio, / questo, il modo / per vivere davvero / dentro di sé il resto»? Su tutto, nondimeno, si staglia l’idea immanente dell’agnizione del proprio destino, «l’idea di un infinito / perfino quotidiano». Il motivo dello specchio riflettente – evocato in Misurazione –, tradizionalmente paradigma della moltiplicazione dei punti di vista, e dunque di disorientamento, è qui eminentemente un fattore che fa emergere particolari finora inavvertiti. Il soggetto lirico pensa di sé («Penso di me», ripete nell’anafora di Abbraccio), al proprio istinto di conservazione, là dove un solo dettaglio può divenir atto a prefigurare qualcosa di necessario, di vitale: traccia svanente e localizzazione di un nesso con il proprio destino. Come nei versi appartenenti a La traccia.

Solo il dettaglio,
nel farsi oggetto
e luogo circoscritto
ai nostri sensi,
rende presente
e non più astratto
né più evanescente
o spento e vano
l’istinto a opporre
al tempo un’immanenza
fingendosi un istante
eterno il mondo
prima che la traccia
slitti via
cadendo a fondo.

Benché il testo di chiusura della quarta sezione (Al mercato dell’amor perduto), e del libro, renda – alla maniera ruffilliana – l’impressione di un risalimento alla nostalgia per gli appassionati testi di esordio, quelli inerenti all’abbandono erotico non cosciente (e al suo imprimersi nella memoria alla stregua di un calco), non controllato, immediato e irriflessivo, antecedente all’istituirsi della dialettica intimità-estraneità, qui il tema amoroso viene perlopiù trattato come cosa pensabile dalla quale trarre conclusioni cui rimettersi con disposizione altra e incertamente riepilogativa («Solo a toccarci / e a stringerci abbracciati / sapremo tutto / delle nostre storie, / del vuoto che ha lasciato / qualcun altro»). La passione amorosa «riempie il vuoto / che ci avvolge, / rompe il muro / indifferente / e vince sempre senza conquistare», lasciando un indelebile segno quando il tempo avrà risanato le lesioni dell’amore. «Un segno / che si incide / e resta addosso», dice Ruffilli – dove la voce «addosso», rispetto allo spirito delle prime sezioni, scrive il senso della stratificazione dell’esperienza. Se è il sentimento di sconfitta che finisce per prevalere («la combinazione / che ci unisce / è quella che ci esalta / e ci punisce»), tuttavia, come nelle parole di Hermann Hesse in esergo al volume, anche per Ruffilli gli eventi fallimentari restituiscono tutto il valore dell’esistenza, tutto il coefficiente affermativo che comunque ne è venuto. Assunto che comporta il ribaltamento di certa retorica sentimentale, per la quale spesso si afferma che il vero oggetto del nostro rimpianto non sarebbero tanto le persone amate perdute lungo la vita quanto la frazione di noi stessi svanita con loro. In altri termini, nella prospettiva di Ruffilli, non potremmo rimpiangere la così detta parte di noi dissoltasi insieme agli esseri amati, essendo proprio la stessa parte che ha contribuito a promuovere un potenziamento della nostra esperienza.

Elisabetta Brizio

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