lunedì 20 aprile 2009

GIAMPAOLO SQUARCINA, Poesie

La poesia di Giampaolo Squarcina (rivelatasi oltre un decennio fa con due plaquettes in cui un ritmo e una sonorità montaliani veicolavano una percezione temporale ed esistenziale cangiante, sofferta, eppure sorretta da un fondo di costanza, da una sotterranea ricerca di perennità e assolutezza) è nel frattempo rimasta lungamente avvolta nel silenzio e nell'ombra.

Eppure non ha taciuto, ha continuato a germinare e a ramificarsi nelle tenebre feconde di un'officina appartata e segreta - e proprio per questo, forse, più autentica.

Una ricerca espressiva, quella dell'autore, che dopo il romanzo Diazepam (stilisticamente vivido, tumultuoso, sismico, ribollente, e ideologicamente teso nella critica delle perversioni e delle storture della società postmoderna e tardocapitalistica) sembra aver ripiegato verso una ricerca di purezza, di limpidezza, di autenticità, da ricercare attraverso l'apparente, astuta neutralità e naturalezza, lo studiato ed artificioso “puro vedere”, dell'immagine fotografica da un lato, la scrittura in esperanto (lingua naturale, razionale, letterariamente vergine - eppure cólta, riflessa, studiata, meditatamente architettata) dall'altro.

Ma nel contempo, come si diceva, neppure la poesia in versi, la poesia propriamente detta ha del tutto cessato, nel suo laboratorio, di prendere forma ed articolarsi. Anzi, come documentano i preziosi inediti che qui riproduciamo, essa si è sviluppata (anche grazie alla raffinata cultura e alla sottile perizia fabrile che all'autore derivano dalla sua formazione di filologo romanzo) in ricercate, profonde e ramificate strutture combinatorie e neometriche.

“A chi 'l morire è grave / ogni momento è morte”, dicono due versi di Battista Guarini, riportati come explicit della raccolta Gli elementi (versi, per inciso, quelli del Pastor fido, modernissimi, che instillano nella musicalità lieve e trasognata di un'Arcadia di puri suoni il senso dolcemente lancinante, il soave veleno, di un quasi esistenzialistico “Essere per la morte” a cui, con tragico paradosso, solo la morte, non più illusoriamente procrastinata e stornata, potrà porre fine: “Altro mal non ha morte / Che 'l pensar a morire. / E chi morir pur deve, / Quanto più tosto more, / Tanto più tosto al suo morir s'invola”).

Una raccolta, quella di Squarcina, che in effetti, nella sua sapiente e rigorosa struttura combinatoria (che richiama in modo evidente il Levi sottile ed estroso del Sistema periodico), sembra voler esorcizzare, nel momento stesso in cui li raffigura, e anzi li ricalca e li riecheggia nel ricorsivo, quasi ipnotico inanellarsi dei componimenti, il ciclo fatale di vita e morte, origine e disfacimento, la vicissitudine perpetua della materia che (da Lucrezio a Foscolo al Valéry del Cimitero marino) “torna alla materia”, ultimata la sua breve vita, il suo effimero e transeunte progetto di forma organica e vivente.

Gli elementi – i primordia, i semina rerum – che diedero, con le loro musive connessure, origine alla vita, sono gli stessi in cui i corpi viventi dovranno presto o tardi disgregarsi e disperdersi. E il linguaggio poetico, con le sue “alchimie”, le sue combinazioni, le sue aggregazioni, le sue callidae iuncturae (le sue, direbbe la linguistica di Tesnière, “valenze” e “saturazioni”, non dissimili da quelle che regolano le congiunzioni degli atomi a formare le molecole e le reazioni - le simpatie e le antipatie avrebbero detto gli alchimisti - delle molecole e degli elementi fra di loro) riporta la vita dei fenomeni e dell'espressione alla sua tenebrosa origine - alla sua oscura, e insieme luminosissima, matrice.

Ma natura e matrix è anche, per antonomasia, la Donna, la Femmina, tiepida ed accogliente, avvolgente ma anche minacciosa (l'”orrido borro”, la cavità oscura in cui smarrirsi, del Dante petroso, la rosa tentatrice, ammaliante e narcotica delle allegorie medievali). Colei che dà la vita dà anche, indirettamente, la morte. Ogni creatura uscita alla tremula luce dell'esistere trova nella sua mortalità, nella sua caducità e finitezza, la propria condizione essenziale e insieme esistenziale, la propria sostanziale possibilità, sempre imminente – e, insieme, la propria più ineluttabile certezza.

“Cavat lapidem gutta”: “le temps coule”, dice Verlaine, fissando il picchiettare, il percolare, uno dopo l'altro, degli istanti la cui fuga inarrestabile logora ed erode l'esistenza come la goccia la pietra.

Nello stesso modo, con la stessa voce amaramente roca o disperatamente gioiosa, nello stesso assolato, sfuggente deserto, gridano, come gli antichi profeti, vita e morte: “pariter vita morsque clamantes”. La morte è, come in Montale, "morte che vive" - se non, come in una fosca figurazione secentesca, "obitus ridens", "morte che ride". E "l'impresa del mondo è un'esuvia": una exuvia, cioè traccia, testimonianza, ricordo - e insieme "spoglia", resto, abbandonato detrito che tutto il teatro del mondo è destinato a divenire, in cui ogni vita e ogni vicenda sono infine votate a mutarsi.



M. V.






Da Gli elementi


IDROGENO

Qui la materia vibra lentamente
in semplice addizione d’elettrone.
Da vasta immane d’alcol profusione
di nuovo ad elemento, per calore;
ed un momento dopo padre, complice
l’accoppiamento a due diverse madri,
di nevi e mari, d’alma immensa pioggia.


PLUTONIO

Dal ventre incandescente del tumore
calore baleno fragore
-poi niente;
la Russia Bianca un veleno-pulviscolo
(più dolce sparso fiele che ad Hiroshima);
ed il nero ha qui forma di luce,
come di notte vista in negativa.
I tornati incuranti lo respirano:
non c’è viaggio che compensi la morte.


Cernobyl 26-IV-1986/26-IV-1996


Da La soddisfazione


nel carcinoso bosco
come ad orto conchiuso
l'accesso negato a più remote zone;
a goccia a goccia (cavat)
l'erosione verso scavi dismessi
a infruttifere vene
di riarsi giacimenti. (lapidem)
L'inedibile stillato dei sensi
l'orlo che non si sfalda
la chiara vista di radure mediane
sovrabitate dalla Carne. (gutta)
L'impresa del mondo è un'esuvia
oscillante nel vento che trasporta.


(intermezzo)

Lasciata la speranza resta il sogno
più comoda dimora del peccato
che potremmo non avere pensato.
Vieni conformami Madre del Nero
oscena sconcia quanto ti desidero:
è breccia d'argilla il corso del piede
su dirupi entro cui mi precipiti.
-dell'attimo di scivolo nel vuoto
-dell'attesa di un altrove di carne

-di questo si vive. Del poco altro
pure si scorda il nome.


(esperimento del vero)

in antichi poemi di rose la cifra del male
che non trasporti a notazione nota;
-le varianti atterriscono se n'eleva
il novero le costanti
-semplicemente non sono-
né posseggo sedimento di scavo di senso dove
attingere quale
vena forare
ricomposto
adesso?
né ho convivi da allestire
solo zolle da occupare
sum obitus ridens -pariter vita morsque clamantes.

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