mercoledì 29 luglio 2015

Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"


«Eterno in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti, neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva, se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

Anche queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del transeunte.
La morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)

1

Eterno in me il tuo viso
d’ultima estate terrigna,
quando a colli e falde arroventate
ferite membra cosparge d’ebbro sale
un verde temporale.

Impenna all’aria smossa
dai ricordi, triste pavana,
la tua pelle che fronteggia bruna morte,
le sere che un cielo dal respiro ferace
si spegneva in luce.

2

Andavi, è vero, come d’aria una folata
gelida a stemperare il ventre caldo
d’estati afose, ognuna già sprecata –

ma la voce t’increspava in un pianto
(solo adesso mi pare averlo inteso)
che riallacciava in te un legame infranto.

Ora non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte mani più bianche a salutare
nel primo buio, alla notte in bordo.

3

Un’ultima estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e cantavi nei silenzi
spiegazzati dentro i vecchi cortili

come se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per tenebra rifonda –
e immobile restavi ai secchi colpi

d’un libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei pianori appartati
dove il fieno stende ad asciugare.

Pause hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono, lieve manto,
il sapore di tristezza delle more.

C’è pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva dei piedi
il correre nudo, le piaghe più atroci.

4

Nell’erbata dove slomba, in torme sfinite,
l’orda lucida dei cinghiali, fa notte nera
il vento che viene ansando da smosse rive
di torrente: il rigagnolo anche sommerge
la pietra bianca con su incisi date e nomi.

Ai rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato a morsi, del raponzolo dorato
una lebbra di corolla, e tremando all’aria
è ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che ora sfumano l’uguale, immenso nulla.

5

Scottano al sole di luglio gli ocracei stagni
dove innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto, smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano tacendolo tra sedie e altalene
ogni canto di cicala, singhiozzo nell’erba.

Sulle pietre del greto salmastre ombre allunga
al centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’ allegro vociare in questa immota tristezza
delle ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).

6

Luna scioglie nel lago –
fa paura a ridirsi quel vuoto
che sparendo hai creato.

La terra, tu gli manchi
ed eri acqua nella stagione secca,
eri lucida vita.

Oscura la collina –
di stelle non conosco pietà
per continuo dolore.

Le bestie, tu gli manchi
ed eri amica nelle lunghe sere
di screpolata estate.

7

Spengono i rumori della strada, a sera
(nei tuoi occhi si venava madreperla) –
ho atteso di guardare i voli delle cince
nascosto tra il cordame di vitalba secca -

o le macchie che luna lascia sui prati,
contate da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro dei castagni, se anche giugno
se ne andava senza riportarti dal nulla.

8

Stavi tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva le acquate che rimontavano forte.

Piangevi per le piccole volpi nascoste al folto
dei tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando i cani scioglievano la corsa disperata
e tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.

9

In neve di luce crollava il giorno
e della tua festa rimase fermo
nell’aria scossa dal riverbero di lune
un nastro che ora al buio s’ inviola.

L’orma cancella ai tocchi della mezza,
i denti spezzati delle innumeri ore
dentro gli ombrosi giardini (quel sole…)
in calma attesa di un lento tuo gesto.

Di fronde risuona, risacca, ogni mattino
una diversa voce: è il ricordo del mondo
in alto riverso, rami divenuti gli scogli
del cielo più blu, quell’autentico mare -

o i cadenti colli di verde grondanti,
argine al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava uno per uno i corpi appesi
al crepuscolo triste, ingorgo di rovi.

10

Nell’agosto che a stento s’allumava
ogni sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra che sei emergeva da acque ceree –

il biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai spento ha il cribrare questi miei giorni –
se nuova pena all’alba cruentava più lontano.

11

Una morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

12

Slavata dai canti -
l’afa candida del mezzogiorno,
cenere imbianca il cuore
delle cose –
un’ora di silenziosa mancanza.
Tu vieni dai morti
alle pianure bruciate in solleone,
con te porti
profumo di spezie e lacrime, o pioggia –
da pinete di porpora, i passi blu
nelle sere impalpabili di luce.
Ma tu vieni dai morti
e ad ogni alba ci ritorni.

Luigi Arista, "Sull'idea di provincia letteraria"

Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.

                                     Luigi Arista

sabato 18 luglio 2015

Cinque poesie di George Pasa





George Pasa, poeta rumeno, esperto di letteratura russa, traduttore di Esenin, un poco appartato rispetto ai grandi centri della vita letteraria, autore solo negli ultimi anni di quattro esili raccolte di versi, sembra riuscire a fondere in sé una duplice vena, una duplice sorgente d'ispirazione, proprio come quella «sorgente del tutto», «Izvorul a Toate», da cui trae nutrimento: da un lato, si potrebbe dire, la grande lezione di Nichita Stanescu, per quell'impareggiabile capacità di tradurre il dato naturale, il germinare e il pullulare della materia vivente, in sostanza verbale, in oggetto e materia di elaborazione letteraria, con quell'elemento di baudelairiano surnaturalisme che inevitabilmente ne deriva; dall'altro, forse, quasi allontanata o rimossa, l'ombra di Lucian Blaga, con quel suo senso panico, quasi panteistico della forza vitale che permea tutto il vivente e da esso si trasmette, si trasfonde e riversa nel discorso del poeta.
Ma si stende anche, sui versi di Pasa, il velo di una, per così dire, metaletteraria malinconia, dettata dalla consapevolezza che la pagina del poeta fissa in parole e segni, essi stessi perituri, una realtà e un mondo di sentimenti e di visioni anch'essi transeunti – mentre la Sorgente del Tutto continuerà, impassibile, a far scaturire correnti d'esistenza, a cui si contrappone, eterna, impassibile, la serenità quasi brancusiana della pietra. 
E, ancora, simbolo malcerto della poesia e della sua condizione esistenziale, la figura di Ovidio, archetipo del poeta esule, perso fra i ghiacci, le tempeste e i suoni aspri di una lingua incomprensibile – così come esule, benché trasognato, ironico, quasi incredulo, è il poeta, smarrito nella realtà e nel linguaggio. 

(introduzione e traduzione di Matteo Veronesi)



studio celeste

non aspettare colori inauditi 
o un maestro che passa
di colore in colore,
qui c'è solo il fumo che sprigiona
l'ardere a un fuoco quieto
qui c'è solo il segno
che l'arte ha denti splendenti,
che mordono solo nel mezzo,
con il vantaggio d'essere il principio. 

non esistono testimoni,
solo il restare sospesi nei pensieri
e il pennello che accarezza il legno
con ostentata dolcezza.
Nulla cade di sbieco,
solo di tanto in tanto
si gettano le scaglie,
perché sia pulito,
come prima di un'esposizione di sogni. 

atelierul albastru 

nu aştepta culori nemaivăzute
sau un maestru ce trece
din culoare-n culoare,
aici e doar fumul pe care-l face
arderea la un foc potolit,
aici e doar semnul
că arta poartă dinţi strălucitori,
muşcând numai din miez,
cu avantajul de a fi începutul.

nu există vreun martor,
doar s(t)are pe gânduri
şi penelul mângâind lemnul 
cu duioşie făţişă.
nimic nu cade oblic,
doar din când în când
se mai aruncă molozul,
să fie curat,
ca înaintea unei expoziţii de vise.


Tempo di rimpianto

Dovevi essere le mie mani,
splendente sulla scala dell'assenza,
venire in pienezza lungo la via dell'attesa,
perché neppure un mattino mi destassi
senza sfiorare le tue palme.
Ora i frutteti si vestono di fiori
per altre ondivaghe illusioni;
io passo senza accorgermi del nettare
in cui la primavera ha mutato la propria bellezza,
il cielo limpido spento nell'azzurro,
non vedo che cenere a memoria del fuoco. 
Senza rimpianto, presto sarà sera,
sapremo di non essere stati che ombre in un sogno insidioso,
per questo tutto ci duole, tutto ci grida in una sola voce:
«È il tempo per l'amore, è il tempo di ricordarvi
che tutti gli istanti hanno gemme e fioriranno per voi.
Passerà ad altri il vostro splendore, l'appassire
è l'ultimo confine prima della notte. Nulla va perduto:
il tempo ha memoria per tutto ciò che esiste.
Tenetevi saldi: passate per una stretta cruna,
e in equilibrio è il tempo del rimpianto».

E timpul pentru dor

Trebuia să fii mâinele meu,
strălucitor pe scara absenţei,
cu plin să vii în calea aşteptării,
nicio dimineaţă să nu mă trezească
fără mângâierea palmelor tale.
Acum înfloresc pomii pentru alte iluzii hoinare;
eu trec fără să iau în seamă nectarul
în care primăvara şi-a trecut frumuseţea,
limpezimea cerului stinsă-n albastru,
văd numai tăciunele ca amintire a focului.
Fără dor, va veni mai curând înserarea,
vom şti că n-am fost decât umbre într-un vis lunecos,
de-aceea toate ne dor, toate ne strigă-ntr-un glas:
„E timpul pentru iubire, e timpul să v-aduceţi aminte
că toate clipele au muguri şi vor înflori pentru voi.
Strălucirea voastră va trece în alţii, veştejirea
e ultima barieră înaintea nopţii. Nimic nu-i pierdut:
timpul are memorie pentru toate cele ce sunt.
Ţineţi-vă bine: treceţi pe o punte îngustă,
şi-n balans e timp pentru dor”.


Pietra dolce  

Le ore, fissate con chiodo d'argento. 
Il pedale della dimenticanza, calcato fino al rifiuto. 
Fra i rumori, il silenzio come un uccello del cielo,
fermo alla fonte per addormentare l'istante. 

Di tutto ciò che hai avuto, 
non ti è rimasto che un piccolo cerchio di pietra
a cui intrecci il filo delle storie. 
Sai che ha soltanto un'imperfezione l'erba:
prende la forma dei nostri corpi perituri,
poi dimentica il nostro passaggio. 

Se l'oblio è la legge che il sonno
fila per noi dal giro delle stelle, 
se dici “mai” quando sogni in eterno, 
allora esistono anche ore impossibili,
che lasci vagare libere tra elefanti d'argilla,
allora esiste una cera con cui si modella
anche il nostro corpo prima di farsi scoria.

Tu resti una pietra dolce
su cui l'amarezza non ha intonato il suo canto, 
pietra lasciata nel sonno della pietra. 

O piatră dulce

Orele, tintuite în cuie de-argint.
Pedala uitării, apăsată pînă la refuz.
Printre zgomote, linistea ca o pasăre a cerului,
oprită la izvor s-adoarmă clipa.
Din tot ce-ai avut,
nu ti-a rămas decît un cercel de piatră
prin care îti treci firul povestilor.
Stii că iarba are doar un cusur:
ia forma trupurilor noastre pieritoare,
apoi uită că am trecut pe acolo.

Dacă uitarea e legea pe care somnul
ne-o toarce din rotirea stelelor,
dacă spui niciodată cînd visezi totdeauna,
atunci există si ore imposibile,
pe care le lasi să umble libere
printre elefantii de lut,
atunci există o ceară din care se modelează
si trupul nostru înaintea trecerii-n zgură.

Tu rămîi o piatră dulce
pe care amarul nu si-a exersat melodia,
piatră lăsată în somnul de piatră.


Ovidio

e se il simbolo della poesia fosse Ovidio
e se le mie stagioni si chiamassero
sogno silenzio tristezza e amore
e ancora il vento che batte nei vuoti della vita
vanità
allora perché non dovremmo anche noi dirci
esploratori dell'ignoto
poveri buffoni che rubano incantesimo all'istante
e poesia alla notte
e se il simbolo della poesia si chiamasse
Ovidio

Ovidiu 

şi dacă simbolul poeziei ar fi Ovidiu 
şi dacă anotimpurile mele s-ar numi 
reverie tăcere tristeţe şi dragoste 
iar vântul ce bate-n pustiurile vieţii 
zădărnicie 
atunci de ce nu ne-am numi şi noi 
exploratori ai neştiutului 
sărmani bufoni ce fură-al clipei farmec 
şi-a nopţii poezie 
şi dacă simbolul poeziei s-ar numi 
Ovidiu

Tutto vive 

Poiché ti sento qui,
o Sorgente del Tutto,
mi scrollo via il mantello dalle spalle
su cui cadono le pietre degli istanti,
lascio che mi lavino le piogge d'estate
dai peccati del dire in violente torsioni,
perché restino solo le parole
balsamo sulle cose. 

Lo so fin d'ora: neppure una virgola
divide ciò che è stato da ciò che è,
solo punti di domanda
cercheranno risposta eternamente.
Il contesto si traccia in superficie con i segni del senso,
mai si inquadra la grande frase nella pagina,
si riverserà verso l'interno, fino a uscire da sé.

Non c'è sosta in questo divenire, 
anche il filo di sabbia serba il canto della sorgente. 
È vano chiedersi chi va, chi resta,
sempre l'argilla e l'acqua furono compagne,
il fuoco e l'aria scriveranno i segni 
dell'ultima venuta. 

E poiché ti sento qui, o Sorgente del Tutto,
scrivo su queste pagine mortali    
ciò che non morirà
insieme a me. 


Totul e viu 

Pentru ca Te simt aici,
Izvorule a Toate,
mi-azvarl mantia de pe umerii
in care lovesc pietrele clipelor,
las ploile verii sa ma spele
de pacatele spunerii in rasuciri violente,
sa ramana doar cuvintele-balsam-peste-lucruri.

Stiu de acum: nicio virgula
nu desparte ceea ce a fost de ceea ce este,
doar semnele de intrebare
isi vor cauta intotdeauna raspuns.
Contextul se deseneaza in piele cu acele sensului,
niciodata nu are sa incapa in pagina marea fraza,
se va revarsa in interior, pana la iesirea din sine. 

In toata curgerea aceasta nu exista intrerupere,
chiar firul de nisip mai pastreaza cantecul izvorului. 
In zadar te intrebi cine pleaca, cine ramane,
lutul si apa au fost dintotdeauna prieteni,
focul si aerul vor scrie semnele ultimei veniri.

Si pentru ca te simt aici, Izvorule a Toate, 
scriu pe aceste pagini pieritoare
ceea ce nu va pieri
odata cu mine.  

domenica 5 luglio 2015

Giuseppe Feola, da “Il corno del narvalo”

Con questi versi, che ho il piacere di presentare (e il cui titolo fa riferimento ad un singolare cetaceo, la “balena cadavere”, sorta di affascinante ed enigmatico unicorno marino), l'autore prosegue, per così dire, il suo scavo verbale nelle profondità ultime e prime della materia e insieme della parola, risalendo, o discendendo, da un lato al fondo minerale, organico, precosciente delle strutture viventi (a cui può alludere il mito di Deucalione e Pirra, con l'immagine degli uomini nati dalla pietra, ma anche quello di Orfeo, con l'emblema della lira-teschio che sparge per i mari il suo armonioso canto, e così pure il rito romano del lituo con cui si traccia sulla terra la proiezione del templum celeste), dall'altro all'origine, ugualmente profonda e remota, della tradizione letteraria, sia essa quella novecentesca, reboriana montaliana sereniana, del residuo disincarnato, della scoria, dell'oggetto abbandonato alla sua matericità apparentemente senza redenzione, sia essa quella tout court italiana (la Povertà- Morte a cui «la porta del piacer nessun disserra», l'arduo cimento intellettuale del procedere, come lamentava Bonagiunta Orbicciani, «per forza di scrittura», inevitabilmente perso, ormai, il diretto contatto con quella naturalezza che pure s'insegue). (M. V.)




Deserto
Wanderlied 1

La mia vita è una spira polverosa
di passi sparsi in una valle d’ombra;
solo sul sasso, la crepa, la spina,
lo sguardo – uccello non di cielo – posa.

Quanto dal giro, qui, dell’orizzonte, nel-
la stanza della vista si disserra,
sono figure
scheggiate in selce
dal pugno della luce:

veli di sogni
che illudono la vista
ma eludono la mano, al-
la fine della via che vi conduce.

E in questa truce, livida
rovina, cosa
viva non v’è, che ti accompagni.
Dentro
l’azzurro vano del tuo cielo, l’anima
tace, contempla,
e non riposa.

Le ossa1

da Deucalione prole fu alla madre / Wanderlied 8


Sto qui, seduto, come un accampato,
sui miei
talloni, sotto il Cielo terso e vano,
pulito da esauriti temporali:

immerso nel
tepore passeggero d’una tazza
d’acqua sporca di tè,
cavata dal silenzio di una fonte

tra le pïetre,
simili alle ossa
ferme del mio cranio.


(nel grembo della forte)
Mezzanotte


Sentila, qui,
nel ticchettìo fermo
del mondo,
giunta quasi per nostra
familïare compagnia – grembo
di grano e legno –,
l’ora
del tarlo e del mulino,
della scossa del vento nel-
la polvere, del tremito
nell’ombra
dell’opera del ragno:

la forte mezzanotte, cuor di pietra,
a macinar dolore, e farne crosta,
midolla e pula – pane
per l’assoluta fame della mente;

ed a vestir della furiosa carne
dei suoi pensieri e sensi,
dell’animo
le scarne desolate
sacre ossa.


Frammento d’un Orfeo


Se la morte l’ha desolato in vita,
lo sa la selva e il cùculo che canta
la fonda nota e la perpetua pendula
canzone ch’egli ascolta,
ipnotizzato all’ombra d’una pianta.
Ma se l’uccello fugge
e tace nella fronda, grigio-alato,
e qui sia tolta”, dice
fratello, col furore
l’illusione, radice
prima del nostro faticoso stato”.


Risveglio (I)

Attendo il giorno,
la quiete ed il momento
in cui del vivere
in ultimo usurato
il facile fiorire si esaurisca;
e del groviglio spesso
delle immaginazioni e degli affetti
in antico animato
non resti che lo stento di un arbusto,
il velo della cenere, la scoria,
gracile e secca e frusta la memoria
e vuota: come il cuore di uno stelo
che la feroce aurora
di un polveroso sole ha soffocato.

Attendo che raggiunga
me silenzioso in ascolto quell’ora
in cui si toglie all’avida
vista il contento;
e, tra le aperte diradate spoglie
del faticoso allucinare spento,
coscienza di se stessa può guardare
dolore e nudità, e verità
del vano sopravvivere cruento.

Attendo il punto del mio compimento:
ché l’animo, dolendosi, è perfetto.
Sia stretto allora il suo freddo legame
sul cuore segreto
del mondo. E guerra sia porta da me
per questa morta ed arida contrada:
spada sia l’occhio, che mira deserto.
Sia pur trista, perduta in cieco fondo
la mia estrema strada.
1 Ad Angelo Mammone Rinaldi, compagno di tè e trekking.

lunedì 22 giugno 2015

Elisabetta Brizio," FOLLOW YOUR DREAMS CON 'IL BOSCO INTERIORE' DI LEONARDO CAFFO"



 

Crisi”: tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La parola deriva infatti da kríno, “separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch, quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale!» (Howl, tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire. Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti per un cambio di prospettive.
Con le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un continuum narrativo e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine, di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di “finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro». Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia, nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità come concetto che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è, senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori, sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero». Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?», piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare per poter ricominciare a poter fare?».
La contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto, cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo dall’interno». Non è metodo, è una res nova destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a considerare anche come un sophos, un “saggio”, se non proprio un philo-sophos, certamente sui generis. Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito, concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto soltanto perché lo si può fare.
Una delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire. Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile farlo da soli?
La vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire. Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi, cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla gestione dei beni comuni, ecc.?
La sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo», scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio; rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante. «Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per compromettere la contemporaneità.
Lontanando, nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva (Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà. Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo» (John Wieners, I walk under the distant stars, tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello – scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni, una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale, scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani: distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi». L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte, e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno propri dell’estetismo. In Walking, che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni), perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden o la vita nei boschi è il punto di partenza di un possibile percorso artistico convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica, che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora? Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile, se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è l’esortazione di Caffo.
Il bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture. Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di Bartleby, I vould prefer non to: è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere ed essere autentici. Vedremo» (Windblown World, tr. it. di S. Villa).
Restano, nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una umanità a venire. Il bosco interiore è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?», che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi, ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni tradizionalmente deputate all’incremento della creatività individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva. Attraversano questo discorso filosofico non professorale numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)» chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi. Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva Kerouac. Non alla fine della strada.