venerdì 14 agosto 2009

Felix Luís Viera e la poesia cubana in esilio




Poco conosco (e temo che, in generale, poco, troppo poco, o in ogni caso meno di quanto sarebbe opportuno, si conosca in Occidente) della letteratura cubana.

Ma non posso, da lettore di poesia interessato ad uno sguardo comparatistico, che restare affascinato da questo testo di Felix Luis Viera, che - con il suo immaginare e vagheggiare, pur se con lucida e asciutta nettezza di contorni, una sorta di casa interiore, di gnostica "casa dell'anima" e della memoria, quasi come la montaliana casa dei doganieri o la "casa abbandonata" di Neruda (immerse entrambe in un tempo senza tempo, in una sorta di passato senza memoria o di memoria senza tempo e senza passato) - trasporta il lettore in un platonico regno di possibilita' individuali e insieme storiche, di potenzialita' e virtualita' esistenziali, immuni dalle contrarieta' e dalle oppressioni di una contingenza spesso disumana e alienante.

E verrebbe in mente, pur nella sostanziale diversita' delle poetiche e delle scelte espressive, "La morte di Narciso" di Lezama Lima, altro splendido e contrastato poeta cubano, che analogamente reagiva all'oppressione in modo simbolico, velato, indiretto, senza neppure degnarla di un richiamo diretto ed aperto, ma trascendendola in una sfera di valori superiori e piu' puri, anche se destinati, forse proprio per questo, a restare confinati nel limbo dell'incompiuto, del virtuale, del solo sognato, del mai-nato - ma non per questo meno vero e vivo, anzi vivo e vero, forse, di una verita' e di una vita piu' libere e pure.


(M. V.)





Nell’ultimo numero (n.30/aprile-giugno/2009) di Arique, ottima rivista di poesia diretta da Raúl Tápanes López, scrittore cubano residente a Santiago del Cile, tra la tanta buona poesia in lingua spagnola che viene sempre pubblicata spicca una lunga intervista al poeta cubano in esilio Felix Luís Viera. Lo scrittore definisce la poesia come un morbo che ti ossessiona fino a cercare di possedere una sensazione producendo un verso. Aggiunge che ha revisionato la raccolta La patria è un’arancia - della quale ho tradotto in passato alcune liriche davvero struggenti - e che presto potrà pubblicarla, ma teme che il suo sesto libro di versi possa essere l’ultimo, il definitivo. In realtà, dalle liriche che ho avuto modo di leggere Viera esprime la grande nostalgia dell’esiliato nei confronti di una terra che ama e che da quattordici anni non può rivedere. Eppure Viera era un poeta stimato a Cuba, aveva ottenuto un premio nel 1976 - in pieno quinquennio grigio - con la sua prima raccolta poetica e numerosi riconoscimenti con i romanzi Sarai comunista, però ti amo (inedito in Italia) e Il lavoro vi farà uomini (edito in Italia da L’ancora del Mediteraneo - titolo originale Un ciervo herido).

Il lavoro edito in Italia è importante perché affronta il tema delle UMAP e accusa il governo castrista di non aver mai chiesto scusa a nessuno per un’esperienza così frustrante e per un periodo così buio della storia cubana. Viera ammette di avere nostalgia di Cuba, ma sa che potrà tornare solo se potranno cambiare le circostanze e teme di non avere molti anni da vivere perché questo possa accadere. In ogni caso è vero che i poeti ritornano sempre, in carne e ossa o con le pagine dei loro libri. Accadrà anche a Cabrera Infante, prima o poi. Accadrà anche a Reinaldo Arenas. Per Félix Luis Viera la speranza è che succeda molto prima, che possa tornare a Cuba per rivedere la sua famiglia e la sua casa idealizzata nel ricordo. Magari ci torneremo insieme, Félix…

Per il momento ho tradotto un’altra lirica stupenda di un artista geniale che la Rivoluzione Cubana ha confinato in Messico. Ve la regalo.


Gordiano Lupi



Casa


de Felix Luis Viera



Esta es la casa donde no habitamos.

Esta es la casa con su jardín elemental,

aquí el librero, la lámpara

a la medida de inmensas jornadas de lectura,

aquí los muebles; en el centro –o ya

no sé si en una esquina, no recuerdo--

un haz de flores (naturales, claro)

Esta es la casa donde no habitamos,

discreta y honda hacia la sangre como un verso,

la casa

donde dos –o tres, ya no recuerdo—niños

ensayan sus colores.

Esta es la casa donde no hay un gesto

que no haya partido del amor.

Aquí su dormitorio, sus sábanas azules –o

blancas, no recuerdo—

donde no nos acostamos.

Esta es la casa que dibujamos de memoria,

la que hoy apenas podríamos (tú o yo) describir,

la que ha quedado

como una semilla rota al borde del camino.

Suerte

que la vida

se hace también de las cosas que no fueron.


De: La que se fue



Casa


di Felix Luis Viera



Questa è la casa dove non abitiamo.

Questa è la casa con il suo semplice giardino,

qui la libreria, la lampada

idonea a immense giornate di lettura,

qui i mobili; nel centro - adesso

non so se in un angolo, non ricordo -

un mazzo di fiori (naturali, chiaro).

Questa è la casa dove non abitiamo,

discreta e profonda verso il sangue come un verso,

la casa

dove due - o tre, ora non ricordo - bambini

provano i loro colori.

Questa è la casa dove non esiste un gesto

che non derivi dall’amore.

Qui la sua camera, le sue lenzuola azzurre - o

bianche, non ricordo -

dove non abbiamo dormito.

Questa è la casa che disegniamo a memoria,

quella che oggi appena potremmo (tu o io) descrivere,

quella che è rimasta

come un seme perduto al margine della strada.

Per fortuna

che la vita

è fatta anche delle cose che non furono.


Tratto da: Quella che se n’è andata


Traduzione di Gordiano Lupi


www.infol.it/lupi




Félix Luis Viera è nato a Santa Clara nel 1945, vive in Messico da quattordici anni. Ha pubblicatole raccolte di racconti: Las llamas en el cielo (1983) e En el nombre del hijo (1983), i romanzi: Con tu vestido blanco (1987), Serás comunista, pero te quiero (1995), Inglaterra Hernández (1997) e Un ciervo herido (2003), le raccolte di poesia: Una melodía sin ton ni son bajo la lluvia (1976), Poemas de amor y de olvido (1994) e l’antologia La que se fue (2008). In Italia è uscito Un ciervo herido e sta per uscire Inglaterra Hernández. Ancora inedito il romanzo El corazón del rey. Attualmente lavora alla raccolta di poesie La patria es una naranja, ispirato alla nostalgia della sua terra.

giovedì 6 agosto 2009

UN APPUNTO SU LEOPARDI (FRA PLATONISMO, TRAGEDIA E CRISTIANESIMO)

Quanto ai rapporti (assai dibattuti e problematici) fra Leopardi e il cristianesimo, c'è un pensiero dello Zibaldone che vedo raramente citato, ma con cui ci si dovrebbe più attentamente confrontare.

"Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice".

Evidentemente, in Leopardi c'è tutto il "pessimismo biblico", il "pessimismo cristiano" (anche il libro di Giobbe è stato letto come una sorta di cripto-tragedia, fondata su una teodicea assurda, occulta e inesplicabile, quasi come la anànke tragica), la coscienza della vanitas vanitatum, senza, però, la rassicurante certezza di una vita e una giustizia ultraterrene.

Il che non portava con sé, automaticamente, il rigetto di ogni possibile sfera metafisica, fosse pure completamente estetizzata (altrimenti non si spiegherebbe "Alla sua donna", con la venerazione dell'archetipo, dell'eidos inafferrabile, dell'alta imago).

Il pathei mathos, la conoscenza attraverso la sofferenza, e viceversa, e la coscienza della condizione umana, della distanza dalla felicità originaria, della "gettatezza" che è propria dell'essere-nel-mondo, accomunano una visione tragico-cristiana (penso al Christus patiens, al motivo anche tragico dell'uomo-dio sofferente, come al Deus absconditus di Pascal e Racine) allo sguardo leopardiano.

Ho la sensazione che la Ginestra, tanto spesso letta in chiave forse troppo ideologica, rappresenti, per parafrasare Pirandello, una sorta di paradossale, antinomico e dialettico superamento (una sorta di Aufhebung) della visione platonico-cristiana attraverso il Cristianesimo e il Platonismo stessi: in sintesi estrema, la luce del pensiero, della verità, della pietas, della agàpe (luce che gli uomini non hanno accolto) contro la malvagità della natura, della materia e della creazione (concetto, questo, tipicamente platonico-cristano, con una venatura gnostica).

Io credo che il senso e il valore essenziali della "social catena", degli uomini "confederati insieme" siano da ricercare nel Platone del Politico come nella visione plotiniana della "grande catena degli esseri" (Moreschini, se non sbaglio, la riconduceva addirittura alla "catena aurea" della Patristica e della Scolastica).

Peraltro, senza richiamarsi alle letture giovanili delle Disputationes di Francisco Suarez, e dunque allo studio della metafisica scolastica, poco si capisce dell'Infinito - di quella interiore "fictio" ("io nel pensier mi fingo") dell'infinito nel pensiero e nell'anima - "fictio", in quel tempo giovanile fertile di illusioni, sottratta al tempo, immersa nell'immobile fluire dell'eterno, dunque ancora priva di implicazioni storiche e sociali, ancorché utopiche.


M. V.

mercoledì 5 agosto 2009

ELISABETTA BRIZIO, "LA 'CONDIZIONE LILIALE' DEL MAETERLINCK DI 'SERRES CHAUDES'"

Ad Alvaro Valentini


Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

Maurice Maeterlinck



Letterarietà décadente, volendo adattare alla poesia una riflessione di Nietzsche sulla musica wagneriana, è eccedenza della parola rispetto alla frase, frase che a sua volta diventa straripante oscurando il senso della pagina, la quale esiste autonomamente facendo astrazione dall’insieme. È la celebre descrizione dello style de décadence che Nietzsche enunciava nel Caso Wagner (e sarebbe interessante notare che, sebbene dapprima Nietzsche vedesse proprio in Wagner un possibile antidoto alla décadence e al nichilismo, l’”opera d’arte totale”, che fonde Wort, Ton e Drama - i tre elementi che Wagner voleva sinesteticamente fondere nel dramma lirico - è molto prossima alle poetiche delle analogie e delle corrispondenze - e non è certo casuale l’interesse di Baudelaire e di Mallarmé per Wagner) e mutuava da Paul Bourget, uno stile che con la sua frammentazione rispecchiava “l’anarchia atomistica, la disgregazione del volere”. Il pensiero di Nietzsche era entropico, anticipava con la preveggenza del genio, colossale e ribelle, del dio sofferente, del poeta deriso, l’entropia, l’indeterminazione, il principio di Heisenberg, che postula l’inesistenza della conoscenza oggettiva, giacché si potrebbe osservare la materia solo alterandola. Ma certo l’idea della morte, del disfacimento morale e intellettuale come disgregazione di atomi gli derivava dalla frequentazione del pensiero greco, degli atomisti, ma anche degli stoici, per lo spettro di una ekpyrosis, di una universale conflagrazione che metteva capo, a sua volta, a una nuova rinascita, in un ciclo incessante, in un eterno ritorno che guarda oltre la siepe dell’infinito.
La décadence è disgregazione, tramonto, inabissamento, eppure, dato l’influsso che ha esercitato su tante correnti successive, dati i tanti fermenti, i tanti autori capitali che a essa si sono rifatti (l’avvicendarsi degli stili, delle correnti soggiace a una logica di eterno ritorno, di perpetuo rinnovamento, pressappoco nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, morivano per poi rinascere, per poi tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Giuseppe Antonio Borgese, inaugurando con la metafora del crepuscolo la definizione stessa di poesia crepuscolare, non sarebbe seguita la notte) finirà per introdurre una maniera aurorale di esprimere l’universo sommerso degli inesprimibili stati dell’essere.
Lo stile del decadentismo è l’esito di una mozione a oggettivare l’invisibile, indotta anche dalla scoperta dell’inconscio quale inesplorato universo dello spirito. Traendo l’inconscio dalla sua destinazione freudiana di traducibilità in linguaggio e in descrizione cosciente veniva restituita al contenuto latente la valenza di enigma e di territorio insondabile, da cui traggono origine sia la sfera della consapevolezza che i contenuti e le rivendicazioni dell’Es. Nuovi saranno allora gli strumenti conoscitivi per una nominazione dell’inconoscibile, nuovo il procedere linguistico per evocazioni. Allo scopo di esplicitare l’arcano cosmico e quotidiano si verifica un dirottamento del linguaggio da ogni configurazione logico-razionale in direzione della modalità analogica e degli aspetti fonico-cromatici della lingua; la percezione della contiguità tra le differenti sfere sensoriali sorge e si avvale dell’analogia quale espressione delle tonalità del mistero, del simbolo, di metafore sinestetiche, di rimandi sonori e delle armonie imitative. Questo perché la nuova poesia è intuizione di uno jenseits der Dinge, di un eidos celato, sotteso alla superficie che è tragicamente avvertita come increspatura. Enunciare equivale a descrivere l’increspatura, conoscere è rivelazione dell’incognito che si manifesta in forme ctonie e oscure, la cui intrasparenza permarrebbe - e Proust soltanto basterebbe a confermarlo - qualora fossero interpretati per via razionale. In Proust l’effabilià del ricordo ha a che fare con l’attitudine assimilatrice dell’analogismo. In fondo la Recherche, come scrisse Walter Benjamin, è la ridescrizione del “mondo nello stato dell’analogia”, laddove le baudelairiane correspondances vengono associate alla vita vissuta.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore”, diceva Proust sulla scorta di Baudelaire. La componente metafisica che illumina ogni parvenza trascorre in un fiat e come tale è inafferrabile. Essa non è il luogo dell’irrazionale, ma è il transito stesso, che, secondo Baudelaire, va enfatizzato e al contempo preservato attraverso l’ebbrezza. E l’ebbrezza costituisce, per così dire, il metodo baudelairiano per intercettare le intermittences e le impressione fuggevoli nella loro centralità sfuggente ed evasiva - o altrimenti detta marginalità significante - e fissarle con la forza evocatoria e medianica del pathos della parola: l’anima décadente apre un varco verso una verbalizzazione dell’insondabile. Diversamente che nell’analogia, dove salta ogni legame logico o di affinità con l’ordine originario delle cose, con il simbolo un oggetto viene assunto per significare un suo aspetto dominante (ad esempio, in Maeterlinck, l’acqua simboleggia la purificazione, il giglio la purezza, il ghiaccio l’indifferenza e la morte). Verificata l’insufficienza dell’uso convenzionale della lingua, non rimane che risolversi per la sua inusabilità: la parola pregnante e omnicomprensiva che infrange le norme della verosimiglianza diviene lo strumento conoscitivo che dissolve la dicotomia tra l’essere e il dire; le ombre e gli inafferrabili segni dell’ignoto vengono ontologizzati e ricondotti al noto attraverso vertiginose analogie in una sintassi illogica dell’inverificabile, in perpetua violazione dei codici linguistici tradizionali e delle gerarchie sintattiche, talora al limite della intelligibilità anche per l’incessante transcodificare da parte dello scriba della décadence. Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, come dicevano gli antichi alchimisti. L’alchimia della parola e la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea (a partire da questa sua matrice simbolista) si spiegano in questi termini.
Nelle Serres Chaudes (1889) Maurice Maeterlinck tenta di risillabare il mistero che sostanzia e avvolge le cose mediante una lingua affollata di simboli, inequivoco segno di una disposizione sentimentale essa stessa incantata e intraducibile, che oscilla in una pendolarità tra paura e desiderio di affidarsi al divino. Per via di illuminazioni (le quali, se assumono come connotatore un elemento particolare, diversamente che in Pascoli non vi si intrattengono oltremodo), Maeterlinck invoca la fine dell’angoscia del mistero, mentre Pascoli, poeta dell’arcano e dell’ineffabile, indugia sul particolare o lo pone in una sfera di superiore astrazione. Prevale in Pascoli il senso di meraviglia che si traduce in simboli maggiormente riconoscibili, emblemi che senza complicarsi ulteriormente attraversano tutta la sua produzione poetica.
La maeterlinckiana tensione a una condizione liliale, edenica, rarefatta e quasi incorporea, “rapita fuor de’ sensi”, redenta dai loro turbamenti e dalle loro contaminazioni esercitò sul D’Annunzio del Poema Paradisiaco e su Sergio Corazzini una seduzione particolare, seppure con esiti del tutto differenti. La serre chaude, equivalente con riserve (è assente in Pascoli il senso di asfissia che pervade tratti delle Serres) al claustrofilico nido pascoliano, passò nei crepuscolari “giardini abbandonati” (ma il discorso della discendenza crepuscolare dai simbolisti di lingua francese sarebbe quanto mai complesso), nell’hortus conclusus del Paradisiaco, che ripropone il tema dell’esigenza di purificazione successiva all’appagamento sensuale. Nondimeno, la dannunziana aspirazione a una generica bontà e a una regressione verso l’innocenza infantile, verso la madre, la disposizione all’ascolto della sofferenza altrui (tutti atteggiamenti protocrepuscolari) paiono offuscate da una poetica della raffinatezza parnassiana, oltre che vagamente ellenistica, dal culto esasperato della locuzione rara, dove la ritmicità della parola forma un suggestivo analogon con il verso libero che si espande in partiture più ampie. Il senso di stanchezza in cui si dilegua la soddisfazione sensuale (come accadrà anche nella produzione narrativa, nel Piacere in particolare), lo stato d’animo convalescenziale che sa i limiti dei sensi riconfluiscono in D’Annunzio in una sorta di edonistico e narcissico autocompiacimento estetico, che, al di là delle scelte espressive, si intrattiene voluttuosamente in questa sorta di stanchezza malinconica e di volontà d’oblio. Non c’è antitesi dunque tra la vita e la morte nel Paradisiaco, ma solo una equivoca fluttuazione dell’una nell’altra. È lo stesso motivo che separa D’Annunzio dall’anima crepuscolare e, ovviamente, da Maeterlinck, nel quale, perlomeno nelle Serres, è del tutto assente anche la dannunziana tensione a dissolversi nell’incessante fluire della vita della natura e a partecipare intimamente dell’eterno tornare della vita cosmica.
Secondo Milo De Angelis (stando all'introduzione all’edizione italiana del 1989) il Maeterlinck di Serres Chaudes sarebbe prossimo al Verlaine di Sagesse, quel Verlaine illuminato dalla passione cattolica trasmessa a Maeterlinck dalla sua traduzione - e dalla conseguente assimilazione - di Ornamento delle nozze spirituali di Jan van Ruysbroeck. Ma la conversione e il rigetto del suo vivre dans le dérèglement non impedirono a Verlaine, in alcuni testi, la ricaduta nell’intensità della sua vita precedente errante nella corruzione. Analogamente, in Maeterlinck pare dubbia la sincerità del suo pentimento: l’itinerario della sua anima - in costante oscillazione tra l’ascesa e il disastro - nel libro sfuma, attraverso immagini e illuminazioni improvvise e stridenti che interrompono un interludio di apatico e riflessivo silenzio, verso un vago sentimento di colpe non bene identificate, che talora pare configurarsi come autocompiacimento della colpa stessa. Cosicché il progetto spirituale delle Serres - un percorso verso un futuro di possibilità peraltro solo adombrato - si conclude con l’equivoca e tutta décadente intenzione-attesa di una cancellazione della colpa dopo lunghe “orazioni addormentate”, aspettando i “ceri stanchi nell’aurora”. Ma la sensazione in questo libro è di assistere - piuttosto che a un anelito verso desideri duraturi - a una graduale restrizione della vita e dello stile propri dell’identità residuale di un poeta del sepolcro, piuttosto che del sagrato.
Lontano è il tempo e il sapere del tempo nelle Serres, l’atmosfera è archetipicamente surreale come spesso in Maeterlinck (si pensi solo alla Stimmung di Pelléas et Mélisande). Tempo e luogo sono remoti e irriconoscibili. Fantasie esotiche, oscure rêveries, ambienti fantastici, contesti di provenienza, ombre, illuminazioni, silenzi e transustanziazioni mistiche si intersecano a un indefinito rituale del sacro, all’immagine ricorrente del giglio, alle iperoggettivazioni nei multivochi simboli della clausura come estraneità, esclusione dal mondo sensibile, protezione e opportunità di accedere a un altrove mistico, alla noia del recluso, che fin dal testo di apertura assume una configurazione di prolungamento in termini di estenuazione dello spleen baudelairiano, privato tuttavia del suo carattere eminentemente tragico. La condizione maeterlinckiana, non meno egotica rispetto a Baudelaire, è priva di tonalità tragiche e somiglia piuttosto a una forma di passività paga di permanere in “inazioni bianche”, all’inesplicabile perplessità di un’anima “malata di assenze” e di “attese morte”, e lo spleen si definisce come ossessiva decantazione dell’indifferenza e dell’apatia di fronte all’inconsistenza e alla insensatezza di tutte le cose, come magistralmente in Noia:

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,
I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;
Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,
I pavoni che passano nel mio sonno,
I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,
Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,
Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,
Attendere svogliati il tempo senza sole.

E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, enigmatico oltremodo, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana - come pure sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto.
Dell’universo della parola Maeterlinck sceglie voci senza tempo e senza storia che si riducono a invocazioni e a compulsive esclamazioni. C’è una omologia tra sogno e poesia, intesa come svelamento del dileguare della vita nel mistero in cui tutte le cose sono avvolte e svaporano. Malgrado il verbo declinato quasi costantemente al presente ci restituisca l’impressione di un’evidenza - di una parola giunta al possesso della luce -, esso non oltrepassa l’annunciazione di un compimento che nei fatti stenta a verificarsi: il presente viene dunque assunto come stigma della stasi.
Il linguaggio poetico è primordiale, non c’è rimozione né identificazione. La stessa iterazione quasi ossessiva di parole chiave, scandite in un ritmo costante e salmodiante, non fa che confermare la loro valenza archetipale. Ma le recondite figurazioni istituite per via analogica finiscono per complicarsi e implicarsi e la maeterlinckiana “vegetazione di simboli” talora trasmuta e cambia di senso (a titolo di esempio: esempio la campana di vetro - quella stessa, forse, sotto cui Montale confesserà di aver trascorso la sua paralizzata e angosciata giovinezza -, simbolo di imprigionamento e di clausura e al contempo di desiderio di separatezza e di difesa), anche in virtù dei frequentissimi accostamenti sinestetici (talora la noia è “blu”, il singhiozzo è “glauco”). Cambiano di segno, ma senza contraddizione alcuna, perché tutti gli aspetti del nostro io non si possono presentare contemporaneamente, in una simultaneità in grado di compendiarli. Vivere - e per il poeta decadente scrivere - equivale ad avvertire e trasferire sulla pagina le metamorfiche forme della vita, dal momento che, come diceva Proust, quello delle intermittences è il solo carattere di permanenza, di persistenza, e, paradossalmente, di equilibrio che ineriscono all’uomo.
Attingendo all’universo materiale delle parole e delle cose del mondo il poeta esprime realtà immateriali e di pensiero e incoerenti allegorie, performa, in altri termini, l’implausibile credibile. Il simbolo maeterlinckiano resta comunque al di qua del deragliamento dei sensi e secondo De Angelis rifluisce nella cantilena del recitativo. Né trattiene i segni di quell’”infernale” e di quell’“inappellabile” caratteristici di Rimbaud, quel carattere “fisicamente, dantescamente, corporeo”. È il simbolo che da noi sarà il crepuscolarissimo referente malinconico della noia, della preghiera-invocazione, del desiderio, del peccato, dell’aspirazione vaga ad affidarsi a una altrettanto vaga spiritualità, la quale non per questo rinuncia ad accordarsi con il mistero della vita, a esprimere adeguatamente correspondances e sfuggenti risonanze tra le cose.
Nel libro finisce per prevalere l’uso del verso libero (meno frequenti sono i metri regolari): allora l’allegorizzazione diviene dispiegata, il testo più sconnesso, disfatto, il simbolo svela realtà inattese e insospettabili correlazioni che vanno oltre i canonici abbinamenti simbologici. Viceversa, nella prima parte frequentissimi sono gli accostamenti sinestetici che diminuiscono gradualmente nel corso del testo.
Secondo De Angelis Maeterlinck insegue una “verità nascosta” che non coincide con la verità della fede. Un’aura di mistero alona l’oggetto, e il poeta non può far altro che constatare la sua inafferrabilità istituendo altre possibilità linguistiche. Vediamo, attraverso i testi, il mutare di alcuni dei segni-simboli - il loro svolgersi tentacolare - di questa complessa condizione.
Innanzitutto la titolazione: la serra è calda, secondo De Angelis, perché “bruciata dalla fede”. Nondimeno, la serra allude anche e soprattutto a una reclusione intrisa di pentimento, condizione annunciata come predominante sin dal testo di apertura (Serre chaude, per l’appunto) che è disseminato di espressioni che rimandano a una situazione claustrale (“porte chiuse”, “cupola”, “una musica di ottoni alle finestre degli incurabili”, “cortile dell’ospizio”, “sotto quelle campane”). In Serra di noia (“dove si vedono chiuse, / tra le vetrate profonde e verdi, / coperte di luna e di cristallo”), in Tentazioni (le “glauche tentazioni” del poeta “hanno tristemente coperto” con il loro “crescere sacrilego” l’aspirazione a una vita senza colpa, all’approdo a un Dio che disperda “i sogni della terra” e che rischiari la “serra malvagia”). Nei versi di Campane di vetro l’invocazione è rivolta a non sollevare le campane, e ad aver “pietà dell’atmosfera rinchiusa”, quasi fosse una protezione, un desiderio di ibernazione che tuttavia alla fine rivela tutto il suo carattere enigmatico nell’immagine dell’eremita nella cella e del fondo della grotta. In Fogliame del cuore “sotto la campana di cristallo azzurro” trova una tregua la sofferenza malinconica del poeta, e il giglio intona una “bianca, mistica preghiera”. In Anima calda l’ombra, le ciglia che “hanno chiuso le porte / su speranze ormai troncate” e le irraggiungibili “campane verdi della speranza” ci riportano a una condizione di timore e di impotenza. Lo stesso accade nel testo successivo, Anima, dove Maeterlinck introduce il colloquio con l’”anima sorella” (che sarà poi preponderante in Corazzini), nel quale ritornano le immagini della serra, degli ammalati, della sepoltura, della prigione, della torre, delle finestre d’ospedale, del convento. L’esortazione reiterata affinché “le finestre restino chiuse” emblematizza - nei versi di Ospedale - l’idea di protezione come “una serra sulla neve”, e uno “zampillo in mezzo alla stanza” induce a schiudere “appena la porta”, mentre il gigli stessi sono minacciati. In Desideri invernali la soglia dei sogni (e, gozzaniamente, delle ”rose che non colsi”, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato) è chiusa, e l’”anima stanca” del poeta pare estenuarsi nel rimpianto dell’innocenza lontanissima e perduta. In Ronda di noia i “gigli si aprono in strade / senza stelle e senza sole”, segnature di una ancora lontana redenzione. In Scafandro l’acqua diviene il luogo eletto a emblema del palpitare della vita, in opposizione al “palombaro nella sua campana per sempre” (si pensi, qui, all’immagine ungarettiana del poeta che scende nelle profondità delle acque per poi risalirne alla luce con i suoi canti, ma anche al palombaro, peraltro ben più giocoso, scanzonato, grottesco, di una celebre “parolibera” di Corrado Govoni). Riflessi è il testo dove la metafora dell’acqua sembrerebbe custodire l’arcano delle cose che dal di fuori appare solo come increspatura. E indicare una via di salvezza e di rigenerazione dalle imperfezioni della vita. :riflessi sarà, non per nulla, il primo, inquietante romanzo di Palazzeschi, tutto intriso di ambigue atmosfere simboliste, e pervaso da una simbologia floreale legata all’idea del disfacimento e della morte.
Il giglio, simbolo per definizione dell’aspirazione alla purezza spirituale, è insidiato da “uccelli notturni” nel testo di apertura, ritorna nell’immagine dei “gigli ingialliti del domani”, dei “gigli nel fondo di acque lontane”, segno di una innocenza non più perseguibile: il giglio è “fragile” nel suo “rigido pallore”, incapace di contrastare le tentazioni del corpo. Lungo le quartine di Anima calda Maeterlinck anticipa - dopo una serie di ipallagi - un tratto tipico della religiosità decadente, pavida e inerte, intrisa di noia e di solitudine: compare qui la parola “paura”, che tornerà meglio contestualizzata in Orazione (“la mia anima ha paura come una donna”). E in entrambi i casi il giglio costituisce l’oggettivazione di questa aspirazione alla purezza: “seminate gigli lungo le febbri”. Il giglio compare insieme all’immagine salvifica dell’acqua nei concitati versi di Ospedale, mentre in Ronda di noia è simbolo di apertura e di possibilità, nell’indifferenza del mondano senso comune: esiste, dirà poi Corazzini in Per organo di Barberia, l’adombramento di una rinascita “che nessuno raccoglie”, una “Primavera di foglie / in una via diserta”.
Questa sordità alla rinascita viene riconfermata in Acquario; la malattia della volontà è un perpetuo indugiare nella condizione di un desiderio di impossibile purificazione: allora i gigli diventano “di ghiaccio” e “sparsi per sempre / e morti sbocciando”, alla stregua di “fiori assenti”. Analogamente, in Riflessi, si delinea uno dei temi principali dell’opera, che sarà poi eminentemente corazziniano, quello dell’inconsistenza:

Sotto i riflessi profondi delle cose
Gigli, palme e rose,
Piangono ancora sotto le acque.

E ai fiori non avanza che sfogliarsi “a uno a uno”, “nell’acqua del sogno e della luna”. Irraggiungibili, dunque, redenzione e purificazione, nell’immagine intrecciata del giglio e dell’elemento liquido. Sono i “gigli appassiti” di Visioni, laddove l’insistenza sul verbo “passare” evoca lontananze perdute, mentre termini come “stanche”, “pesanti”, “sonno”, “lente”, “svogliate”, “immobile” si ricollegano alla noia di un’anima indolente e accidiosa. In Orazione (due sono i testi così intitolati nelle Serres) l’ennesima invocazione al Signore che sa la miseria del poeta e dei suoi “fiori maligni” (in esplicita opposizione ai gigli), la religiosità è vissuta espressamente come orfanità di un’”anima spossata” e come inaridimento nell’immagine del ghiaccio e nell’ossimorica “tristezza della mia gioia”.
La nota tristezza, nel rallentamento della scansione elencatoria e nel frequentissimo ricorso all’anafora, assume nella visionarietà di Sguardi diverse configurazioni: dal senso di soffocamento di “un pomeriggio d’estate in un museo di cere”, a uno stato d’animo da convalescente, enfatizza una immobilità, quasi da atmosfera cronostatica, un presente immobilizzato per un’analisi del tempo, che pare interdire ogni alternativa e ogni ulteriorità (sguardi “che soffrono di non poter essere altrove”, “sguardi muti”, “sguardi quasi soffocati”), fino alla resa dei “gigli delle guerre”. E ancora, in Attesa, incontriamo “gigli che non sbocciano”, una sospensione (“suonano sempre le stesse ore”) che in Pomeriggio si protrae nella paralisi “dei sogni immobili” e nel desiderio “dell’acqua sull’erba”. Ma l’anima, in Anima di serra, è “rinchiusa nel vetro” mentre la vita vera si schiude “sott’acqua” e i gigli si stagliano “contro i vetri chiusi”, in attesa che la luna “schiuda in silenzio le porte”. I gigli “si muovono sott’acqua / sfiorando gli eterni bagliori” si dice in Intenzioni, rivelazioni che avvengono sotto gli “occhi chiusi” del soggetto lirico, la cui anima “apre al volo dei cigni”, con chiara allusione a una auspicata elevazione morale. Il vetro diventa il diaframma tra il desiderio e la vocazione per “altre speranze”, in Vetro ardente:

Guardo antiche ore,
sotto il vetro ardente dei rimpianti;
E dal fondo blu dei loro segreti
I fiori emergono migliori.

Con la scomposta visionarietà di Contatti Maeterlinck compie una sorta di consuntivo (scandito dal ricorrere dell’invocazione “abbiate pietà!”) della propria esistenza, e affida alle mani il compito di descrivere gli ormai noti e autoindulgenti simboli di reclusione (“un convento senza giardino”, la serra, le - poi corazziniane - porte chiuse, la dimensione sotterranea, la prigione, la grotta) e di aspirazione alla vita (“a spargere un po’ d’acqua sulla soglia”), laddove l’immagine dell’acqua (già introdotta nel testo sotto la veste di “zampilli” e di “fontane”) finalmente “fresca e chiara”, a conclusione del testo, sembrerebbe aprire una possibilità di redenzione e di ritorno a uno stato di innocenza (“attendo che bagnino i miei sguardi, / l’erba morta dei miei sguardi, / dove tanti agnelli sono sparsi”).
Possibilità che si delinea come indugio perpetuo (“attendo sul viso la loro freschezza, / come un tesoro in fondo all’acqua”, “attendo che bagnino i miei sguardi”), variamente simbolizzato in Anima di notte, testo conclusivo del libro, dove il reiterarsi ossessivamente anaforico ed enfatico del termine “attendo” (peraltro debordante lungo tutto il libro) sancisce il senso di una redenzione come eterna vana ricerca e aspettazione – oltre che dell’idea patologica del tempo immobile, bloccato, e dello spazio chiuso, che anela a una impossibile apertura, a una preclusa, e soffocata sul nascere, dilatazione.
Già in Orazione Maeterlinck aveva delineato questo senso di esitazione nelle “ore spente”, nella “pallida indolenza” e nella seduzione per l’astensione dei “gigli ingialliti del domani”:

Abbiate pietà della mia assenza
Alla soglia delle intenzioni!
L’anima è pallida di impotenza
E di inazioni bianche.

Chiusura, clausura, rigetto, aseità, distanza dal mondo, mancanza di rapporto tra il Sé e le cose, secondo la definizione canonica dell’angoscia, della melanconia, del taedium vitae: il tutto però visto non solo come “cella triste” - direbbe Corazzini - della tortura esistenziale, ma anche come difesa, come ripiegamento interiore, protezione dell’io. Come spazio, infine, della creazione poetica e della stessa testualità. Il male e il rimedio coincidono, si incrementano l’un l’altro e si fondono in verbo poetico, perché la poesia si incarica di completare la vita, di darne la propria versione con altre forme:

Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

PATRIZIA GAROFALO, “ANTONIA POZZI E LA POESIA DELLA MONTAGNA”

«Non monti, anime di monti sono / queste pallide guglie, irrigidite / in volontà d'ascesa», scriveva Antonia Pozzi in Dolomiti. Forse, aggiunge in Prati, la vita è «un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza». Ecco, questo era per lei la montagna amata: paesaggio interiore e correlato oggettivo, riflesso e proiezione di uno slancio intellettuale e spirituale che voleva – in lei, coltissima al di là degli appassionati e un poco ingenui slanci, allieva di Antonio Banfi, e lettrice di Husserl e di Heidegger, di Mallarmé, di Hölderlin, di Rilke - muoversi entro il vasto spazio, sulla vertiginosa voragine che separava l'esser-ci dall'Essere, marcando la differenza ontologica - proiettare il convulso, apparentemente informe flusso delle “esperienze vissute” nell'assolutezza del piano eidetico, di una “soggettività trascendentale” che potesse investirle di un valore perenne senza privarle, per questo, della loro mobile vivezza, della loro problematicità tormentata.
La poesia non era evasione idealistica o rifugio estetizzante, ma, fenomenologicamente, esistenzialmente, aspro, angoloso travaglio del pensiero e del linguaggio, antitesi dialettica (come si legge nella lettera a Gadenz del 29 gennaio 1933) «tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire», «forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l'urgere del fluire divino» (e vi è, qui - in questa tensione fra il libero flusso della vita e della coscienza e la fissità delle forme che lo soffocano e lo frenano, e nelle quali, nondimeno, quel flusso non può che cercare di fermarsi, per trovare consistenza e manifestazione -, qualcosa di Focillon come di Pirandello, di Simmel, di Bergson - insomma tutta un'atmosfera concettuale comune al panorama culturale dell'epoca, e fusa, forse, all'influsso dell'immaginario mistico, per la sottesa icona della “luce fluente della divinità”, del “lume in forma di rivera”). Ma ogni cosa che uscisse dalla penna di Antonia Pozzi era - anche quando intellettualmente mediata - espressione sofferta, sentita e dolente della sua esperienza esistenziale, del suo vissuto, della sua “individualità infelice”. Ciò vale addirittura per la tesi su Flaubert, attraversata dal conflitto dialettico, che fu anche della Pozzi, fra sentimento e realtà, soggettività che si autotrascende e “mondo della vita”. E anche nella tesi si incontra la simbologia e l'àmbito metaforico dell'ascesa montana come ascesa esistenziale (si pensi anche al Petrarca della salita al Ventoso). C'era, nell'opera flaubertiana, una «incessante tensione trattenuta che la colloca come in un'atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale».
Quel gioco mortale, quella sottile, vibrante e precaria oscillazione fra letteratura e vita, fra pensiero e destino, Antonia li esperimentò e li consumò fino in fondo: fino al punto in cui s'infranse la «corazza di Ariel», la difesa della parola poetica e della stilizzazione estetica, e la sua esistenza si risolse, e dissolse, nel suicidio, come esito estremo, e forse più coerente - inevitabile prezzo da pagare, forse, per la sua estrema, purissima e disperata «probità di spirito», inconciliabile con la durezza e l'ingannevolezza del mondo, che Eliot loderà in lei.
Come Hölderlin ai piedi delle Alpi, anche Antonia avvertì la «sacra innocenza» agli occhi della quale «tutto è puro», e seppe intendere e cantare – prima che il suo fluire si perdesse nel Tutto - «i linguaggi del cielo».
Bene fa Patrizia Garofalo, in queste sue pagine intense e suggestive, a citare La montagna incantata di Mann – in cui l'ascesa, la lontananza da terra, il volo, paradossalmente, senza staccare i piedi dal suolo, sono spazio emblematico della sospensione del tempo, dell'oblio, della libertà – come la morte.
Infine, lo specchio della poesia si infranse. Le parole erano vetri che, pur se infedelmente, rispecchiavano il cielo dell'anima. «Una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume». «Sia / nei fiori dei monti / il sepolcro / degli astri spenti». Come in Mallarmé, si era sgretolato l'esangue e fragile miroir di Erodiade, e non restava più che la cendre des astres di Igitur, il polveroso mormorio dei fantasmi sublimi, del celeste niente.


(M. V.)






“E' difficile spiegare la poesia infinita della montagna; forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima nostra, libero da ogni pensiero terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze… e nella intima comunione con la severa ed alta natura, ci si rivela quanta gioia ci sarebbe purissima nella nostra vita, se sapessimo ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose proprio grandi e belle” (Guido Rey, 17 Agosto 1898).
Scalatori e Al sole delle Dolomiti sono due testi che mi hanno sempre accompagnato, rivelazioni di un mondo più vicino al cielo che alla terra, dove si sperimenta e si vive creativamente l’abbandono dei ritmi della vita e il perdersi nel flusso di un tempo straniero alle sovrastrutture e foriero di svelamenti improvvisi, di incantamenti e spaesamenti, di ricerca, di ipotesi sacrali, del silenzio che apre il varco alla parola non peritura. Quando e come, dalla vertigine del buio, la parola conosca la sua epifania nella poesia non è dato saperlo, ma è proprio nella dimensione dell’“inesprimere l’esprimibile”, secondo Roland Barthes, e nell’atto di scoprire una “parola seconda” e altra che consiste l’agito poetico; contro l’obsoleto e l’usura penetra il foglio e lo scolpisce per sempre rimanendo memoria e suggestione meravigliante. E’ quanto accade nell’incontro tra Antonia Pozzi e Tullio Gadenz, un'”amicizia” fuori dal tempo e nel tempo, nelle cose e nella loro sublimazione che orchestra anche la morte ad una percezione d’eternità e trasmuta la gnosi in una pratica sacrale. Come nel “cantico dei cantici”, tradotto dall’ebraico nella trasposizione poetica di Agostino Venanzio Reali, si auspica un futuro nell’ampiezza celeste, vicino alle montagne, così nell’epistolario dei due poeti si delinea l’ipotesi salvifica di un’esistenza defilata che penetri il senso dell’esistenza stessa.

Amato –“ Tu che soggiorni dentro un paradiso
fammi la tua voce riudire
Amata – Tornami a sembrare, amato mio
un cervo, un capriolo sui profili
dei monti che fragrano, viola.”

Antonia Pozzi – “ Radici / profonde nel grembo di un monte / conservano un sepolto
segreto / di origini – e quello per cui mi riapro / stelo / di pallide
certezze”.

Tullio Gadenz – “Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera / la più
Profonda / Radice.”

Incontri di intensa tonalità, di totale reciprocità e incanto che preludono ad una intesa più ampia e totale e totalizzante che dall’aleph della terra abbraccia tutto il creato fino all’immagine sinestetica del profilo dei monti che “fragrano” viola.

Forte il desiderio che in Tullio Gadenz vede, non a caso, la maiuscola in ogni a capo a connotare ogni incipit come nuova nascita, forte in Antonia Pozzi nella reiterazione della parola “grembo”, dal quale si ripartoriscono le stagioni in una verginità non concessa agli uomini, ma sperata nelle lettere dell’epistolario come intenso vissuto di una poesia che conosce e sa il dolore eppure suona la musica del “per sempre”. Perché la poesia, per definizione, ha carattere di eternità.
Un epistolario pubblicato postumo si offre ad un contatto più diretto con il lettore, a una scrittura meno mediata; “spogliata dal trucco”, la parola di Antonia è affidata alla meraviglia di aver conosciuto un poeta e il poeta dalla prima epistola consegnerà ad Antonia parole di commozione e di gratitudine: “ il suo ricordo non tramonterà”. Lo scritto è breve, intenso e in esso colgo la stessa modalità di “scrittura scolpita” che Tullio Gadenz imprimerà ai suoi versi, mai “rotondi”, se vogliamo ricordare un termine caro a Quasimodo .

“Lei non sa, Tullio. Lei forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato “la scoperta” meravigliosa di lei... Il libro vivo di un’anima, non finisce mai … per chi non vede più che un colore di tramonto, per chi ancora beve l’incanto delle cose, ma non sa, non può… tradurlo più in parole, ah Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che sprigiona il nostro stesso canto inespresso… perdoni questa mia trasognata lettera… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Segna le lettere un avvicendarsi di poesia a due voci .

La situazione dolorosa della poetessa. mai dettagliata nei fatti contingenti, si offre ad una sospirata catarsi nei versi del suo poeta, dei quali si elegge vestale grata e commossa e proprio nella commozione di entrambi si vivifica l’urgere di un risanamento nell’altro. Versi epistolari vibrano la parola secondo spartiti accordati, insieme alla percezione quasi tattile di un altrove, di una erranza, di un incanto che si definiranno in tonalità espressive scandite da un climax ascendente, e in gesti compenetrati dalla cosciente consapevolezza dell’eccezionalità del loro essere insieme - voce all’unisono, risonante eco tra le dolomiti incantate.

“Al cimitero nessuno era andato da tempo; il sentiero era quasi intatto, la neve all’interno era così tesa ed immacolata, che non osai imprimerla del mio passo (solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole più tristi), colsi da un pino un ramoscello a forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via… il mio sfiorire non mi doleva più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose. Così mi è rimasta nel cuore la sua S. Martino… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Un passo silenzioso sul camposanto di guerra davanti al quale la poetessa, per non violare il manto di neve intatta, calda consolazione ai morti, pone un rametto a forma di croce sul cancello senza entrare. Sapremo nella lettera che segue di pochi giorni che sarà Tullio Gadenz a trovarla a terra e a porla sulla croce “alta e bianca” del camposanto in una singolare sintonia di gesti che avvicinano sempre più entrambi alla condivisione della sacralità del vivere e del morire.
Una riflessione smarrita e incredula, una sorta di spaesamento sulla pace dell’oltreumano lo induce a chiedere: “ho avuto l’impressione che anche la pace dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero Lei non crede che tutti i viventi si precipiterebbero verso la morte?”. L’interrogativo viene distratto dalla riflessione, forse anche per il ruolo consolatorio che il poeta si sentiva di avere nei confronti di Antonia, e resta un inciso nella lettera che tanto rimanda alla “montagna incantata” di Mann; stelle impigliate ai vetri e la scoperta mattutina di uno splendente giardino di ghiaccio appena svegli, quando ancora il sonno favorisce il prolungamento del sogno in veglia, insieme alla percezione della mano amata che pone una croce in cima ad un abete, riequilibrano le antinomie tra vita e morte.

Lassù, in montagne dove cielo e cime sembrano volersi congiungere, anche le stelle bussano alle finestre e sembrano riflettere bagliori nel caleidoscopio dei riflessi brillanti e ghiacciati, “incantati”, vergini di pianure che ne “profanerebbero” il candore sporcandole di fango, noia, dolore, costrizioni. Neanche i fiori resistono in pianura uccisi dal freddo e dal loro essere, in altre parole, “essenzialmente” fuori posto. Il silenzio risuona di parole nella melodia degli uccelli nei boschi che chiude la lettera: “non si dimentichi di me”.

Ricordarsi reciprocamente, questo si chiedono ad ogni lettera nell’accezione più compiuta di questo termine, rimandare al cuore il significante che nel suo esistere si nutre anche del timore della fine insieme al desiderio che niente di amato possa essere tradito dal cuore che - scrigno di sentimenti - custodisce attimo dopo attimo per un futuro di memoria, un album di fotografie dell’anima, un canzoniere di liriche “dove solo l’anima pareva poter camminare”.
E’ del 18 gennaio la dichiarazione di Antonia di un dolore pressante. “Sapere la mia piccola croce così in alto sopra i soldati morti quasi mi sgomenta: tanto sono avvezza, ormai, a sostare ai cancelli, così della vita come della morte, ed a sentirmi un po’ come quei giunchi che guardano le acque passare e tremano, sempre infitti nella stessa bassura”.

Tullio le risponderà con un piccolo ritardo di cui si scusa con una modulazione ritmica di parole che entrano nel profondo, affondano nel dolore quasi per ritrovare e donare forza, accarezzano un “tu” confidenziale insieme allo stelo fragile che desidera carezzare e ascoltare. “In questi giorni ho dimenticato anche di esistere. Sono salito su altissime montagne… scendendo a casa mia con la tormenta o con il vento, ho visto fiorire molto nel profondo le stelle… però non ho smarrito la strada che conduce a lei… anch’io voglio essere la piccola, fragile onda che sbatte lievemente a quelle canne… parla l’anima mia - ed accarezza quegli steli che tremano. Mi comprendi, amica?… sorga la tua voce - ad annunciare che qualcuno è nascosto nel silenzio - e nel mio cuore il sole nascerà”. Come non pensare al sogno di Hans Castorp nella tormenta, nel capitolo “Neve” dello Zauberberg? Il quale tuttavia esce da questa esperienza con la convinzione che non bisogna “concedere alla morte il dominio sui pensieri”.

Nella risposta di Antonia un’altra dichiarazione che si aggrappa all’eternità delle alture ed infrangere quel diaframma che Mann chiamava impegno etico dell’uomo verso la pianura: il quale nondimeno può essere avvertito e penetrato solo in una posizione, si diceva, defilata, in un assorto estraniarsi dal tempo e dalla memoria.

Dio è infinito e si esprime in forme che vivificano senza sosta, è un Dio vissuto nelle cose, nel creato, in un panteismo intensamente spirituale che vede nella poesia la conoscenza più alta e la più forte sintesi tra “lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire”; e i sentimenti, il silenzio si fanno sbigottimento, parola lirica estasiata, e cancellano il contrasto e il confine fra sogno e realtà: “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”.

Scoprire Dio nella vita prima di giungere a Lui, “far uscire le cose dall’ombra”, abbracciare dolore gioia e amore: “Mi piace raffigurare me stessa come un capriolo pauroso che disegni di piccole ombre la neve… mi mandi presto un altro dono che sappia d’azzurro.”

Entrambe le epistole sembrano lievitare all’eterno pani sacri anche in sofferta ascesa.
Il disagio di Antonia appare nondimeno senza consolazione, le epistole che seguono lasciano il segno di una reciproca fragilità; al peso di chi non avverte più il germogliare della primavera corrisponde quello di chi, solo, trova il suo parlare difficile all’avvertimento di un vuoto incolmabile e senza ritorno: “Raramente io scrivo alle persone che amo, ma invece io parlo con loro improvvisamente in mezzo alla natura e mi pare ch’esse rispondano e che ogni distanza sia distrutta”. Lo scriversi si va diradando, anche impegni e spostamenti dei due lo rendono difficile; troveranno un abbeveraggio a Milano nella casa di Antonia e riusciranno a tornare nella sintonia di sempre: “Forse si sarà accorta… della mia gioia… deve aver sentito che la mia anima si muoveva liberamente nella sua stanza… e sfiorava ogni tanto le sue dita e i suoi capelli… quando ho sentito chiudersi dietro a me la porta della sua casa - è stato per me - come se fossi precipitato in quel momento da un’alta rupe”.

Di un’intensità che affonda nell’anima la lettera del 10 novembre. “Stanotte è morto l’autunno… ho fatto un piccolo volumetto delle mie liriche meno brutte… ho paura che la posta me lo possa perdere. Lo porterò io la prossima volta a Milano… vicino a lei dovrebbero nascere tanti pensieri freschi ed azzurri… in questa busta troverà un fiore. E’ l’ultimo della valle - l’ho colto per lei - perché venisse a morire - come un mio pensiero - nelle sue mani”. La genzianella sarà ricevuta (insieme a versi che si sostanziano, con marcatissima sinestesia, “di pensieri freschi e azzurri”), salvata dalla bufera della vita e della neve con una breve risposta di desiderio di vivere contro il “franare del tempo”, firmata per la prima volta con il solo nome: Antonia.

All’inarrestabile trascorrere del tempo che conduce alla deriva ogni cosa, Tullio comunica di aver scritto un libro di poesie, di cui ben settanta dopo il loro incontro a Milano: “il tempo è la più grande gioia della vita… ogni istante esso ci porta innanzi nell’eternità… bisogna custodire con gioia il piccolo sole che noi portiamo nella vita, e vigilare su tutte le nebbie”.

Seguono cartoline, una d’autore, “Sinfonia candida”, dove l’incisiva sinestesia lascia pensare ad un deliberato dono di Tullio ad Antonia. Nel contempo sappiamo della sua avvenuta laurea, dell’attesa di un praticantato come avvocato, della sua silloge a cui spesso rimette mano. L’insufficienza linguistica lo spingerà a silenzi incantati di montagna che ridonino alla parola l’immagine intensa del suo sentire. Arriverà a Tullio un papavero raccolto da Antonia vicino all’Acropoli, al tramonto “intanto che il vento correva”, baciato “come se in esso vi fosse ancora la soavità delle mani che l’avevano colto”; “… e ho riveduto nella mia memoria, splendere più alta ancora della statua di Minerva che i naviganti scoprono dal Sunio, Lei”. Del loro parlare di poesia scrive: “Non ricordo che fontane di cristallo”. Suggestiva analogia, evocante l’amore per la poesia che invia messaggi di luce, di cristalli sfaccettati, di ipotesi di ricerca nel silenzio ghiacciato iridescente di sole e vita e contemporaneamente rimanda al dolore, nella misura in cui la fontana è “ghiacciata”, immobile, ma non per questo inaridita.

Cartoline rare accompagnano il grande silenzio che non trova più voce che consoli e lenisca l’attraversamento sofferto della vita di Antonia.

Sua l’ultima lettera, forse due, scritte in momenti diversi, dove Antonia singhiozza silenziosa sullo spaesamento e coglie nelle montagne un’infinitezza densa che suona la musica alta del cielo nelle nuvole che passano e alle quali il suo sguardo chiede un concerto d’organo che accompagna come in un requiem l’ultima vista delle Tre Cime, “là erette come una cattedrale gotica, sventrata dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra”. Tutto a Pasturo si colora della nostalgia, di una impossibile rinascita e ritorno all’origine e alla radice dell’albero, quella profonda di cui Tullio aveva scritto nei versi da lei più amati.

Tutto il resto è storia ed è storia di “pianura”.


Recensione di Patrizia Garofalo (luglio 2009)



Bibliografia

Scalatori, a cura di A. Borgognoni e G. Titta Rosa, Ulrico Hoepli, Milano 1939
S. Casara, Al sole delle Dolomiti, Ulrico Hoepli, Milano 1947
S. Quasimodo, Il poeta e il politico ed altri saggi, Mondadori, Milano 1967
A. Pozzi, T. Gadenz, Epistolario (1933-1938), Viennepierre, Milano 2008.

sabato 1 agosto 2009

Patrizia Garofalo, "Sulla poesia di Gianni Sassaroli"

Le parole si ridefiniscono nell’immagine e la copertina introduce alla silloge di Gianni Sassaroli (L'ombra delle cinque dita, edizione privata) nella solitudine poetica e realistica di uno dei più significativi quadri di Hopper. Un realismo abile a cogliere nell’immagine femminile, inondata dal sole, una finestra da cui niente si scorge, nulla si spera .

Il “ciò che non siamo e che non vogliamo” continua nel poeta come ramo nodoso all’attraversamento sofferto del vivere. Esule volontario da un mondo straniero, barbaro e tracotante, Gianni Sassaroli con la sua silloge ci annoda al dolore e scientemente buca il foglio con l’ombra delle cinque dita. Come la luce di Hopper sottolinea l’isolamento, così l’ombra del poeta non ristora i versi ma li incide e, con lo stesso gioco di contrasti, non suona il pianoforte la mano che scrive, ma arriva graffiante la voce a dirci che in un mondo di giganti si muore.
Lo scrivere assume così la necessità di una messa a fuoco diretta ma anche compromissoria con la realtà. E’ il venire a patti con l’immaginazione che potente spesso rivendica in Sassaroli il dovere di vivere.

«La stanza ancora opaca dell’ultima luce torna pipistrello un / frusciare di rami che sono tende alzate e lasciate nel ritmo / grotte scure gli angoli dei muri / stasera ha anche piovuto e l’erba lascia nelle radici del naso odore / dolce sembra ubriacatura / di stanchezza di battito rapido più lento / vorrei trattenere i respiri prima che il sole violento schiacci tutto e / tutto diventi evidente».

Colgo come sia complessa la lettura di questo testo il cui andare a capo non segue un concetto di logica strutturazione del pensiero ma un agito immaginario in lotta con l’evidenza dalla quale il poeta si distacca proprio nell’infrangere regole di base, di spazi e sguardi. I versi rotolano come sassi da un ghiaione verso valle, senza che nessuno riesca a dirigerli ma, visto che l’ombra delle cinque dita così fortemente scrive, l’intensità del dolore appare ricerca e restituisce alla poesia il valore alto del sacrale cercato. La stanza, opacamente riflessa nella cecità del pipistrello, respira con il modulato ritmo nelle tende alzate e l’aggiunta dell’ “anche ha piovuto” sembra aprire un varco oltre le mura, benevola la pioggia nel sinestetico “odore dolce” che restituisce alla terra e che rientra nell’immagine dell’acqua come emblema di purificazione, nelle nostre radici profumo di buono, di dolcezza, allenta il ritmo del respiro in una configurazione ampia e dispiegata che profuma di amabile ubriacatura, di vendemmie e campagna, di aperto e di aria.
Serve a vivere il prefigurare una tarda nascita del sole, esso non illumina ma sottolinea l’evidenza. Il sole che abbaglia e i pipistrelli che battono nei lampioni di montaliana memoria in questi versi assumono tonalità e spazialità ascendenti pur in una lirica decisamente circolare.
La stanza si ridefinisce infatti in luogo dell’evidenza, ma all’interno si amplia di rumori, colori, ritmi, pianure, pioggia, respiri, immaginazione. E mi sembra di aver trovato il bandolo per leggere queste liriche così complesse ed alte. Esse vivono e pulsano di una musica interna al campo semantico che mettono in scena e in esso dipingono e suonano. Il passaggio è coraggioso, sfrontato quasi. È così che il simbolismo realista della pittura di Hopper è tradotto dal poeta e si disegna in parole a lui consoni, che esplodono e trovano la forza nell’urlo e la quiete nella natura che lo accoglie. «Sono arrivato solo e svogliato il corpo maturo ed invecchiato / a guardare di costa il prossimo giorno che avanza / voglio dimenticare l’origine strana del viaggio / senza impronte recenti».

Il primo lungo verso connota nella rima martellante interna (arrivato-svogliato-invecchiato) un senso di sfinitezza del viaggio umano e «il giorno che avanza» (che, gozzanianamente, possiamo leggere come «il giorno che rimane») è un’aggiunta di inutilità strappata al calendario del tempo, la dimenticanza sembra sussistere come accompagnamento all’anestesia del dolore.

In una struttura aritmica come spesso è il cuore leggiamo anche abbandoni e tregue: «La città è vicina e distante un fiato non porta rabbia/ diffuso quel riflesso diamante/ di luna forse».
Dalla prigionia esistenziale arriva una meravigliosa e ampia figurazione del bacio «sotto il cerchio la ciglia nella guancia sulla bocca salata”; “ quel vento alzerà negli incroci le gonne/ alla più bella che asseconda il movimento dell’alito fresco e ride/ d’essere vista»; «dolcissimo e bello rimane solo sulla fronte il capello riccio»; «il rivolo sul collo della ragazza penetra pensiero pizzicore percettibile/ la lana dei seni».

La fisicità, percettibile nella silloge, sfuma in un orizzonte più lontano spesso ricucito sul dolore, ma che di esso fa poesia e parola accecata dal brivido delle assenze, di volanti attese, di fianco alla vita e nella vita, tangente al male di vivere ma dissetato da «respiri regolari come i fianchi di una gondola/ si muove lentamente».

Dal momento che ho avvertito il suo legame con la pittura di Hopper, altrettanto mi sento di collegare all’arte di Chagall le parole di pausa al dolore.

Forse il mondo è anche sogno dove appendere se stessi qualche volta, e dove l’ombra delle cinque dita può sembrare una carezza.


Patrizia Garofalo